La guerra del 1967 mise in luce la debolezza politica di Israele sulla scena mondiale. Nessun Paese europeo era disposto a vendere armi allo Stato ebraico, l'Unione Sovietica interruppe le relazioni diplomatiche, costrinse i suoi satelliti europei, compresa la Romania, a fare lo stesso, e mobilitò i partiti comunisti di tutto il mondo: le manifestazioni anti-Israele divennero comuni soprattutto in Francia e in Italia. All'Onu, l'elevato numero di Stati membri a prevalente popolazione musulmana garantì l'approvazione di innumerevoli risoluzioni anti-Israele, come continua ad avvenire tuttora.
Ma la vittoria di Israele aveva dimostrato che il Paese poteva essere un alleato utile per gli Stati Uniti, che quindi annullarono l'embargo sugli armamenti e presero a fornirli generosamente, in modo che le forze israeliane poterono godere dell'inedita esperienza inedita di ricevere nuove armi con tutte le parti necessarie e perfino i relativi manuali operativi. Inoltre, il brusco rifiuto francese di fornire altri aerei da combattimento non appena iniziarono i combattimenti del 1967 fu presto compensato dall'arrivo di nuovi jet da combattimento statunitensi.
Sei anni dopo, l'eccesso di fiducia congenito degli israeliani - dopo tutto è una caratteristica necessaria per costruire un nuovo Stato e far rivivere l'ebraico come lingua - sfociò nell'invasione a sorpresa del 6 ottobre 1973 da parte di Egitto e Siria. Lungo il Canale di Suez, un totale di 144 soldati sparsi in 22 forti fu attaccato da una prima ondata di circa diecimila soldati egiziani con molti altri che seguivano a breve distanza, mentre sulle alture del Golan un totale di 170 carri armati fu attaccato da un numero rilevante di mezzi corazzati siriani.
I diciotto giorni di guerra che seguirono furono caratterizzati da duri combattimenti e dalla mobilitazione di tutte le forze disponibili, ma quando le ostilità terminarono le truppe israeliane stavano avanzando e si trovavano a soli 101 chilometri dal Cairo e a 36 chilometri da Damasco, avendo vinto importanti battaglie su entrambi i fronti. In Israele, però, l'esultanza fu solo sommessa, perché 2.656 soldati erano morti, molti tra di loro nel tentativo di fare fronte ad attacchi a sorpresa che l'intelligence israeliana non era riuscita a prevedere.
Ancora più deprimente era il ragionamento secondo cui, dopo i conflitti del 1967 e del 1973, Israele avrebbe dovuto affrontare ogni sei o sette anni altre grandi guerre, e ognuna di loro avrebbe richiesto ancora molti combattimenti e molte morti in battaglia. Sebbene Israele avesse per la prima volta gli Stati Uniti come un vero e proprio alleato - gli Usa fornirono munizioni per via aerea durante i combattimenti - l'embargo petrolifero proclamato dagli arabi la prima notte di guerra dissuase rapidamente qualsiasi altro investimento da parte dell'Europa o del Giappone, aggiungendo i timorosi consumatori di petrolio ai già numerosissimi Stati comunisti e islamici non disposti ad avere alcun rapporto con Israele.
Ora, cinquant'anni dopo, un altro attacco a sorpresa, reso possibile da un eccesso arrogante di fiducia, ha rivelato ancora una volta un Israele che ha molta più forza militare di quanto si pensasse. A risultare evidente è la superiorità tecnologica in specifici settori: le truppe israeliane possono schierare tra l'altro i veicoli blindati meglio protetti al mondo, nonché batterie missilistiche in grado di intercettare automaticamente nello spazio le testate dei missili balistici.
Un altro punto di forza del Paese, molto più elementare, è che Israele è oggi unico tra i Paesi avanzati perché le sue donne partoriscono ancora in media più di due figli, a meno che non siano religiose, visto che in questo caso i figlio sono più di tre.
Di conseguenza, le famiglie israeliane non rischiano di estinguersi con la morte di un familiare in combattimento, e gli israeliani non sono post-eroici e semplicemente indisponibili a combattere, come accade in Europa. A rispondere con entusiasmo alla mobilitazione dello scorso ottobre non sono stati solo i giovani uomini e le donne, ma anche i riservisti con famiglia, non pochi dei quali sono tornati dalla Silicon Valley o da Singapore per tornare alle loro vecchie unità, anche se non erano stati chiamati.
Come nelle guerre precedenti, i combattimenti di oggi sono accompagnati da una dura opposizione politica al governo e al suo primo ministro: nella guerra del 1973 furono Golda Meir e l'eroe del 1967 Moshe Dayan a essere aspramente criticati, questa volta tocca a Netanyahu.
Un altro elemento di continuità è che ogni guerra evoca una nuova serie di nemici dello Stato ebraico, al di là di chi stia combattendo sul campo. Nel 1948 furono il Ministero degli Esteri e il Dipartimento di Stato americano a cercare di strangolare il nuovo Stato alla nascita, negandogli le armi necessarie per sopravvivere. Nel 1967 furono l'Unione Sovietica e i partiti comunisti di tutto il mondo a organizzare agitazioni di massa contro Israele dopo la sua vittoria sulle armi e le tattiche sovietiche.
Nel 1973 fu l'embargo petrolifero imposto dall'Arabia Saudita a scatenare l'opposizione islamica globale allo Stato ebraico, e ora è il movimento «decoloniale» a definire gli israeliani come bianchi e quindi colonialisti la cui morte va celebrata, e i palestinesi come esponenti di un popolo oppresso, quindi esenti da qualsiasi critica anche se uccidono bambini.
Ma proprio come nel 1967, quando Israele fu ovunque attaccato dai comunisti ma ottenne il sostegno degli Stati Uniti, e nel 1973, quando l'opposizione araba e islamica allo Stato ebraico fu contrastata dalla Turchia e dall'Iran non arabi, nonché dagli Stati Uniti e dai suoi alleati che la pensavano allo stesso modo, così, in questa guerra, Israele ha raccolto il sostegno di molti americani, dell'India come alleato a tutto tondo, e la tacita cooperazione della Russia, mentre nessun Paese arabo che ha stabilito relazioni diplomatiche con Israele le ha interrotte.
Lungo il percorso, dal 1948 ad oggi, la popolazione di Israele è
di guerra in guerra aumentata in modo rilevante, mentre la sua industria tecnologica è cresciuta ancora di più - e finora non c'è alcuna indicazione che l'una o l'altra smetteranno di crescere, guerre o non guerre.(2-Fine)
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