La casa potrebbe tornare nel mirino. La riforma del catasto ha iniziato l'iter parlamentare che, nel giro di un anno, dovrebbe portare a definire le nuove rendite. Ma c'è il rischio che possa nascondere nuove stangate. Rifare il catasto è nell'interesse di tutti e dei proprietari per primi. A patto, però, che censisca i reali redditi e valori immobiliari. Cosa che oggi non è.
Le attuali rendite catastali dovrebbero rappresentare i cosiddetti «redditi correnti» cioè i canoni effettivamente percepibili, depurati delle spese e delle tasse. Invece non li rappresentano per niente: la revisione del 1990 ha censito paradossalmente solo i valori di mercato, trasformandoli poi in un sorta di (finte) rendite. Inoltre il procedimento seguito è stato affrettato, confuso e semplicistico, producendo come risultato tre soli coefficienti: 1, 2 e 3, rispettivamente per case, uffici e negozi. La riforma è stata tanto assurda che oggi molti credono di pagare le imposte non sulle rendite, ma sul valore degli immobili. Tanto assurda che fu bocciata da Tar e Consiglio di Stato nonché, di fatto, dalla Corte costituzionale, su ricorso di Confedilizia. Ma non è ancora tutto. Quelle rendite bislacche sono infatti state tutte aumentate del 5% prima dal governo Prodi e poi, smodatamente, dal governo Monti (addirittura del 60% per le case e così via). Queste rendite rappresentano oggi solo l'assatanamento per il danaro che accomuna certi politici e certi burocrati.
Ecco perché allora rifare il catasto è oggi un'esigenza di civiltà. Ma farlo equo, non sarà facile. Intanto, dovrà per forza essere un catasto «algoritmico» (cioè ottenuto attraverso l'applicazione di determinate e complesse formule statistiche ponderate, così come prescrive la legge delega), con un margine di errore all'insù - come è avvenuto in Spagna, con conseguenti rivolte popolari - del 20-25% (che per tasse al livello attuale non è propriamente poco). In secondo luogo, sarà un catasto di metri quadrati: con conseguente penalizzazione di tutti gli immobili storico-artistici, ma (...)
(...) soprattutto di ogni proprietario che abbia ad esempio ereditato un'unità immobiliare di ampia superficie che oggi non può neppure vendere perché nessuno l'acquisterebbe. Lo stesso discorso vale per i valori, che saranno - come detto - stabiliti accanto ai redditi, sempre con gli stessi criteri (algoritmi e superficie in metri).
Il problema, dunque, non è riforma sì o riforma no. Il problema è che si voglia davvero fare un catasto equo e neutrale, cioè ad invarianza di gravame dei tributi, compresa quella a livello comunale (come Confedilizia è riuscita a ottenere) che così è più facilmente controllabile. La partenza del governo - con lo schema di decreto legislativo sulle Commissioni censuarie - non è però stata confortante. La commissione Finanze del Senato (col presidente Marino in prima persona) ha durato le fatiche di Ercole solo per ottenere dalla burocrazia ministeriale la certezza che il mondo immobiliare sia almeno rappresentato, ancorché in netta e totale minoranza (in Commissione centrale, quella che deciderà tutto, il rapporto è uno a dieci, tanti essendo i componenti di parte pubblica o parapubblica o governativa).
Ma per ora niente ha potuto la Commissione sul fatto che sia ammessa la sostituzione per seduta solo dei componenti pubblici e che contro le decisioni delle commissioni locali possa ricorrere l'Agenzia delle entrate, ma non i rappresentanti dei contribuenti. Vedremo se la Commissione finanze della Camera (presidente Capezzone) riuscirà a smuovere la burocrazia ministeriale anche su questi due fondamentali punti. Speriamo di sì, perché altrimenti tornerebbe fondato il convincimento che l'apparato cerchi col nuovo catasto un aumento surrettizio della base imponibile dei tributi. Ancora una volta quelli sulla casa.
Presidente di Confedilizia
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