Caro direttore, ho letto con grande interesse l'intervista rilasciata al Corriere della Sera dal direttore generale Rai Antonio Campo Dall'Orto. Interesse aumentato dal fatto che fino ad ora, nelle riunioni del Cda di cui faccio parte, il dg ha di fatto illustrato le linee di indirizzo da lui anticipate prima in una intervista a Il Foglio e successivamente al Sole24Ore. In Rai, evidentemente, si comunica a mezzo stampa visto che tra dg e consiglieri di amministrazione non è possibile avere momenti di dialogo e di confronto sul presente e, soprattutto, sul futuro dell'azienda. Per questo non posso non adeguarmi alle «regole della casa» e a manifestare, approfittando dell'ospitalità del Giornale, la preoccupazione di fondo che l'intervista mi ha suscitato. Questa preoccupazione non riguarda l'inderogabile necessità di innovare il servizio pubblico rompendo con il modello tv del passato. E neppure la volontà di realizzare l'obbiettivo puntando su competenza e meritocrazia. La preoccupazione riguarda il metodo con cui questo fondamentale cambiamento deve essere realizzato. Dall'intervista di Campo Dall'Orto emerge con estrema chiarezza che il metodo prescelto è quello personalistico dell'«uomo solo al comando». Cioè di chi, avuto il mandato pieno e la totale autonomia di azione da parte dell'altro e superiore «uomo al comando», decide e opera in piena e assoluta solitudine. Questo metodo è perfetto per una azienda privata, il cui obiettivo unico è rappresentato dall'economicità e dal profitto dell'impresa. Ma il «profitto» della Rai, e la sua unica ragione di esistenza come servizio pubblico, è rappresentato dalla difesa del pluralismo delle idee presenti nella società democratica. Nell'intervista di Campo Dall'Orto, però, non c'è alcun accenno al pluralismo e neppure un vago riferimento al ruolo del presidente, che una volta veniva definito di garanzia ma che adesso non si sa bene cosa sia, o a quello dei consiglieri di amministrazione che a termini di legge (sia quella Gasparri sia quella futura) hanno la responsabilità di garantire il rispetto del principio fondante del servizio pubblico. La mia non è una preoccupazione riguardante la persona. Stimo Campo Dall'Orto e sono convinto che sia animato dalle migliori intenzioni. Ma la legge di riforma della Rai in corso di approvazione da parte del Parlamento attribuisce più ampi e più forti poteri al dg trasformato in amministratore delegato. E se il progetto di quest'ultimo è di portare la Rai nel futuro senza tenere conto di un pluralismo inteso come rispetto della pluralità democratica delle idee, delle sensibilità, degli interessi, il timore che la legge «renzissima» di adesso diventi simile a quella «fascistissima» del '25 sull'informazione diventa incombente. C'è, infine, un'ultima considerazione. Il proposito del dg di diffondere la legalità nell'azienda radiotelevisiva pubblica è sacrosanto. Ci sono troppi angolini oscuri dove fare luce. Ma c'è da intendersi sul concetto di legalità. Che non è solo lotta al malaffare e dalla corruzione ma anche rispetto dei diritti individuali. Da quelli di chi è in contenzioso (circa il 10% dei dipendenti) a quelli di chi, sempre a stare ad anticipazione di stampa, rischia il posto di lavoro (circa 250 giornalisti) per un progetto di ristrutturazione aziendale ancora tutto da definire. La legalità, infine, riguarda anche il diritto dei cittadini a non essere sottoposti a fenomeni di gogna mediatica.
Con fiction che condannano prima delle sentenze o come il caso di Un giorno in pretura con la trasmissione delle udienze del processo Tarantini diretta non solo a infangare e denigrare uno dei leader dell'opposizione come Silvio Berlusconi ma a riesumare, nei confronti delle tate ragazze chiamate a testimoniare, il «marchio del distinguo» di colore giallo che nella Repubblica Veneta veniva imposto alle prostitute. Nella Rai del futuro, sempre che voglia rimanere servizio pubblico e non servizio di una parte, queste illegalità non possono avere spazio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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