Open Arms vuole usare Josefa per denunciare Italia e Libia

Il fondatore Camps attacca Salvini: «Saranno accusati di omicidio colposo». La replica: «Bugie, li quereliamo»

Open Arms vuole usare Josefa per denunciare Italia e Libia

Adesso vogliono portare la loro campagna politico-umanitaria nei tribunali internazionali. E per riuscirci sono pronti a denunciare la Guardia costiera libica, il governo di Tripoli e quello italiano. Non è chiaro davanti a quale autorità e neppure in base a quali prove, ma poco importa. Per i volontari della Ong Proactiva, armatrice della nave Open Arms, l'importante è fare notizia, incunearsi nel dibattito politico, ribadire il diritto dei migranti a entrare in Italia ed Europa indipendentemente dal diritto all'asilo. E così sono pronti a utilizzare allo scopo anche Josefa, la disgraziata donna camerunense recuperata viva dal relitto di un gommone dove erano rimasti il corpo di un'altra donna e di un bimbo.

Ovviamente prima di lanciarsi in uno scontro politico che ha come principale obbiettivo il ministro dell'Interno Matteo Salvini scelgono con attenzione il campo di battaglia. La dichiarazione di guerra arriva, non a caso, dopo l'attracco a quello che lo stesso Oscar Camps, fondatore della Ong, definisce un porto sicuro. «Dopo quattro giorni di navigazione - scrive Camps su Twitter - la nave entra finalmente nel porto sicuro di Palma di Maiorca. Ora denunceremo la Libia e l'Italia per omicidio colposo». L'obbiettivo è chiaro. Camps e i suoi, tutti ex-militanti della sinistra radicale, sperano nella complicità del governo spagnolo guidato dal socialista Pedro Sanchez. E magari nella disponibilità di qualche magistrato pronto a trasformare la denuncia in una rogatoria internazionale. Speranza dalle gambe assai corte visto che i governi spagnoli hanno sempre attuato - con fermezza e continuità assolutamente bipartisan - i respingimenti dei migranti sorpresi a passare dal Marocco alle enclavi di Ceuta e Melilla.

La trama accusatoria su cui Proactiva vuole basare l'accusa di omicidio colposo è, comunque, facile da immaginare. Camps e compagni - pur essendo arrivati sul luogo in cui si trovavano Josefa e i cadaveri della donna e del bimbo molte ore dopo il salvataggio effettuato dalla Guardia costiera libica - ipotizzano che la sopravvissuta e le altre due vittime siano state abbandonate al loro destino dopo essersi rifiutate di salire a bordo della motovedetta di Tripoli. E per sostenere questa tesi in giudizio l'Ong conta sulla testimonianza della sopravvissuta camerunese. Una testimonianza fin qui alquanto dubbia visto che lo stesso Riccardo Gatti, portavoce della Ong e capitano di Open Arms, ammette che solo ieri la poveretta ha ripreso a parlare. Il tentativo di utilizzare Josefa come testimone viene intanto liquidato come una strumentalizzazione dal nostro ministero dell'Interno. «La denuncia di Josefa? Qualcuno strumentalizza una vittima per fini politici fanno sapere fonti del Viminale - denunceremo chi, con bugie e falsità, mette in dubbio l'immensa opera di salvataggio e accoglienza svolta dall'Italia. Non meritano risposta continuano le stesse fonti - le Ong che insinuano, scappano, minacciano denunce, ma non svelano con trasparenza finanziatori e attività».

A portar acqua al mulino di Proactiva ci pensa, però il Fatto Quotidiano. Citando non meglio precisate fonti militari - non si capisce se italiane o libiche - il quotidiano accusa la Guardia costiera libica di danneggiare intenzionalmente i gommoni per provocarne l'affondamento e costringere i migranti a salire a bordo delle motovedette. «Quando le motovedette libiche si avvicinano ai barconi scrive il quotidiano - i migranti, che non vogliono essere riportati in Libia, rifiutano di essere trasportati sulle imbarcazioni della Guardia costiera.

E a quel punto, per convincerli ad accettare il soccorso, è ormai prassi che i militari libici inizino le operazioni per affondare la barca». Anche qui accuse vaghe e prive di sostanza. Ma intanto l'affare monta e le Pro Activa gioca la sua partita. Poco umanitaria, ma assai politica.

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