Il papà assassino del piccolo Mehmed: "Non era la prima volta che lo picchiavo"

La confessione choc dell'uomo: «Volevo solo che smettesse di dare fastidio»

Il papà assassino del piccolo Mehmed: "Non era la prima volta che lo picchiavo"

Milano - Lo hanno dovuto separare dagli altri detenuti, perché davanti all'orrore di quello che ha fatto la legge del carcere non offre sconti di pena. Così da ieri Alijica Hrustic è chiuso in una cella del reparto «protetti» di San Vittore, tra altri reietti come lui: violentatori, pedofili, eccetera. La polizia penitenziaria ha avuto l'ordine di tenere comunque gli occhi bene aperti, perché anche in quella malabolgia che è il reparto speciale potrebbe esserci chi decide di fargliela pagare nel mondo più sbrigativo possibile.

In teoria, la sorveglianza serve anche per prevenire il rischio che Hrustic compia atti di autolesionismo, una volta resosi conto della gravità di quello che ha fatto. Ha ucciso di botte il suo bambino, una creatura di due anni la cui unica colpa era di turbargli il sonno strafatto di droga, e nessun padre potrebbe sopportare una colpa simile. Ma l'impressione degli inquirenti è che sia una cautela eccessiva. Anche adesso che è tornato lucido, il venticinquenne rom non sembra turbato più di tanto dalla immane gravità del suo crimine.

Ieri Alijica Hrustic è stato interrogato anche dal pm Giovanna Cavalleri, che procede nei suoi confronti per omicidio volontario aggravato. Al magistrato, l'uomo ha confermato la confessione che aveva già reso nella notte di mercoledì agli investigatori della Squadra Omicidi. «L'ho picchiato, è vero, ma non pensavo che lo avrei ucciso. Volevo solo che smettesse di dare fastidio. Solo quando mi sono accorto che non respirava ho capito che era successo qualcosa e vi ho chiamato». Al pm, Hrustic ha ribadito anche un'altra ammissione che aveva fatto ai poliziotti, e che è destinata a pesare non poco sul suo destino: «Non era la prima volta che lo picchiavo, anche in passato era successo che gli dessi qualche colpo». Altro che «qualche colpo»: sul piccolo corpo di Mehmed ci sono i segni inequivocabili di percosse brutali precedenti alle notte che martedì notte ne hanno causato la morte. E questo insieme di prove racconta la breve vita del piccolo come un inferno ininterrotto, nel degrado e nella violenza, fino al tragico finale.

E la madre, in tutto questo, dov'era? Nelle ore cruciali dell'uccisione di Mehmed la donna - venticinque anni, incinta del quinto figlio - era presente nel piccolo appartamento occupato abusivamente, ha assistito a tutto, e spiega di non essere stata fisicamente in condizione di opporsi alla furia del marito. Ma nei mesi precedenti, quelli che hanno visto le violenze iniziare e ripetersi, come è possibile che non abbia trovato la possibilità e la forza di intervenire, di chiedere aiuto, di denunciare? Per il momento, ribadiscono gli inquirenti, la madre d Mehmed non è indagata, e viene sentita solo come testimone. Ma una risposta a queste domande prima o poi andrà trovata.

C'è un ultimo tema che incombe sulla tragedia, penalmente irrilevante ma non evitabile: il calvario di Mehmed si è svolto nel pieno di un quartiere milanese, della metropoli di Expo e della fashion week, in una oasi di illegalità che tutti conoscevano, oggetto di denunce ripetute e di inchieste

giornalistiche, a partire da questo quotidiano. Dove fossero lo Stato, i servizi sociali, le forze dell'ordine, anche queste sono domande cui si dovrà trovare risposta per evitare che una tragedia simile possa ripetersi.

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