Probabilmente è colpa nostra, di noi occidentali. Aver creduto che Dmitry Medvedev fosse davvero l'aggiustatore della Russia, il democratizzatore di un Paese che alla fine è pur sempre iscritto al circolo delle nazioni dispotiche d'Oriente anche se noi periodicamente la invitiamo al grande ballo decadente delle anime belle d'Europa, beh, è stato un nostro grande abbaglio.
Medvedev non era una placida gallinella, ma un falco en travesti. A guardarlo ora in fondo il becco adunco uso all'agguato già c'era. Era un Putin più giovane e gentile mentre oggi è solo più giovane. Quando nel 2008 prese a tenere in caldo la poltrona del Cremlino per il suo capocomico, lo fece solo perché quest'ultimo doveva vedersela con una delle classiche seccature democratiche, un articolo della costituzione che impedisce a un presidente di ricandidarsi dopo i due mandati che Vladimir aveva appena ultimato. Uffa. Medvedev svolse la mansione di facente funzioni - mentre Putin scalò a primo ministro - lasciò tutto in ordine, e quattro anni dopo si prestò alla cosiddetta rokirovka, l'arrocco della politica in cui due pezzi si scambiano i posti. Putin di nuovo presidente, Medvedev di nuovo premier, il grande refuso della storia recente russo sbianchettato. Amici come prima. Come sempre.
Il problema è che in quei quattro anni, anzi nei primi due o tre, l'occidente ci credette. Pensammo davvero che quel quarantenne un po' pacioccone ma elegante, dallo sguardo limpido e dai completi impeccabili, che giocava a fare l'amicone dei leader occidentali, che ascoltava i Deep Purple e non il Coro dell'Armata Russa, fosse l'uomo destinato ad andare a braccetto con noi, condividendo barzellette e battaglie civili, in un allegro cammino verso magnifiche sorti e progressive. Certo, il buon Dmitry ci mise del suo: in campagna elettorale fu rassicurante e liberale, le sue parole erano sempre concilianti e velutate, all'inizio del suo mandato flirtò anche con Barack Obama. Qualcuno avrà ancora negli occhi la foto dei due presidenti che firmano, a Praga, nel 2010, era aprile, il New Start, il trattato per la riduzione delle armi nucleari e avrà in mente come quell'immagine - Obama mancino, Medvedev destrorso - ci avesse commosso, convincendoci che fossimo entrati davvero in una nuova era. Dodici anni dopo le armi viaggiano più del grano sulle rotte Est-Ovest.
Se è vero che un uomo si giudica tanto dai suoi nemici quanto dai suoi amici, Medvedev si autodefinisce da sé. I suoi nemici siamo noi, ci odia, ce lo ha detto, facciamocene una ragione, del resto non dobbiamo andarci a cena. I suoi amici, anzi il suo amico, è Vladimir Joystick Putin, che lo comanda come fosse un avatar di un videogioco. I due si conobbero nei primi anni Novanta quando entrambi vennero chiamati a collaborare con la nuova amministrazione comunale di San Pietroburgo, città natale dei due, guidata da Anatoly Sobchak: Medvedev arrivava dall'attività accademica, era allievo del giurista, Putin dal Kgb, e qui sta la differenza antropologica tra i due, il primo colto e misurato, il secondo spietato e paranoico. Malgrado questo spread i due divennero amici, ma non alla pari, bensì di quelli dove uno decide e l'altro obbedisce, uno fa il comico e l'altro la spalla, uno fa gol e l'altro, al massimo, l'assist. Alla falsa gallinella Medvedev tutto ciò andava bene, un po' per indole e molto per gratitudine. Fare il presidente della Federazione Russa, lo stato più grande della Terra, era un regalo di Putin, magari un po' di occasione, come quando l'amico ti regala un paio di scarpe di lusso perché gli stanno strette. Ma mica si può sempre andare per il sottile.
E ora che la guerra di
Putin è in pieno svolgimento, ora che lo zar ha fatto all-in con la Storia, ecco che l'amico Dmitry diventa più realista del re, anzi più zarista dello zar. La verità ci fa male, per questo ogni tanto ci piace illuderci.
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