Paura dell'arresto o del Papa? Bin Salman assente in Puglia dopo lo "strappo" sul petrolio

Scaduto il 9 giugno l'accordo cinquantennale con gli Usa: greggio non più quotato in dollari

Paura dell'arresto o del Papa? Bin Salman assente in Puglia dopo lo "strappo" sul petrolio
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Temeva di venir arrestato perché un'associazione italiana lo ha denunciato per l'omicidio del dissidente Jamal Ahmad Khashoggi. Ha ascoltato il «consigliere» Matteo Renzi accettando di rifilare un reale sgarbo a Giorgia. Non voleva farsi vedere con il Papa cristiano. O semplicemente l'infastidiva la visita a un'Italia con cui è stato in competizione per l'Expo 2030. Le voci sono tante, ma nessuno conosce la vera ragione per cui il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman ha evitato di farsi vedere al G7 e stringere la mano all'ex-alleato Joe Biden.

Dietro le quinte dell'economia internazionale la reale defezione vien spiegata con ragioni ben più serie e gravide di conseguenze. Il 9 giugno, tre giorni prima dell'annullamento della visita, era infatti arrivato a scadenza il cinquantennale accordo sui petrol-dollari stretto da Usa e Arabia Saudita nel lontano 1974. E a decidere la rottura - con uno sgarbo non da poco all'America e a Biden - è stato proprio il principe Bin Salman. Lo sgarbo è, infatti, tutt'altro che formale. In base alla defunta intesa il regno saudita s'impegnava a vendere e quotare il suo greggio esclusivamente in dollari. E a utilizzare una parte dei dollari incassati per pagare la protezione garantita al regno dagli Stati Uniti. Oltre all'acquisto di armamenti prodotti da aziende americane. Ma non solo. La terza parte di quell'intesa prevedeva il reinvestimento dei surplus derivanti dalla fatturazione del greggio in bond americani. I sauditi s'impegnavano, insomma, ad acquistare parti consistenti del debito americano.

E se ci aggiungiamo che di conseguenza tutto il petrolio del mondo veniva quotato e pagato in dollari, anche se a comprarlo o venderlo erano Paesi come Russia o Cina, è facile capire perché il mancato rinnovo rischi di scatenare un terremoto finanziario che non poteva lasciar indifferente il G7. Anche perché il terremoto minaccia innanzitutto la tradizionale stabilità della valuta di Washington garantita dal ruolo di moneta indispensabile per l'acquisto di energia. Senza più quel ruolo la richiesta di dollari andrebbe incontro a un'inevitabile flessione capace di generare svalutazione e inflazione sui mercati americani.

Sul piano strategico lo sgarbo saudita ha implicazioni che vanno ben aldilà delle dinamiche finanziarie. La mossa è la diretta conseguenza della crisi nei rapporti tra Washington e Riad aperta nel 2021 da un Joe Biden pronto ad attribuire al principe ereditario saudita l'omicidio di Jamal Khashoggi. Da quel momento tra Riad e Washington nulla è più stato come prima. La ritirata saudita dal fronte anti Houthi nello Yemen è andata di pari passo con gli accordi sugli aumenti del greggio che nel 2022 hanno garantito le entrate di Mosca nonostante le sanzioni. E subito dopo sono arrivate le intese tra Riad e lo storico nemico iraniano mediate inaspettatamente da una Cina sempre lontana dagli affari mediorientali.

Bazzecole rispetto a quanto potrà succedere nelle prossime settimane quando la Russia chiederà che il suo petrolio venga pagato in rubli mentre

Pechino pretenderà fatture energetiche da saldare in yuan. O in valute digitali. Un meccanismo totalmente nuovo che rischia di avere per Washington l'effetto di un'indesiderata quanto non dichiarata sanzione finanziaria.

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