Palermo, fine settembre 1987, 42 gradi sciroccosi. Ciriaco De Mita nuotava in piscina a Villa Igiea, annaspava con il suo stile approssimativo, beveva acqua clorata una bracciata sì e una no e intanto a rischiare di inabissarsi quando apriva bocca non era lui ma il governo del fedele Goria. «Eh no, nel Golfo Bersico ghe gi andiamo a fare». Roma, 1990, vasca a Montecitorio con i cronisti a strascico, un altro ragionamendo. «Se anghe i terzini tirano nella brobria borta, è la fine». E a Nusco, qualche anno dopo, ecco il compendio. «Chi vuol far sembrare semplice una cosa complessa, non l'ha capita».Eppure sotto il fumo c'era la Politica, materia ormai sconosciuta tra i leader di oggi. E dietro le lotte di corrente e le scivolate clientelari c'era comunque il senso dello Stato. Tanti i progetti, dal rinnovamento dc alla modernizzazione del Paese, quasi tutti rimasti sulla carta. Tanto il potere: De Mita, rimasto per 15 anni al centro della vita pubblica italiana, fu il primo a rompere il tabù del doppio incarico, segretario e presidente del Consiglio contemporaneamente. Dopo di lui in altre situazioni ci riuscirono solo Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. Tanti pure gli episodi che hanno segnato il Paese negli anni in cui lo Scudo Crociato dominava e incollava tutto: il duello rusticano, antropologico più che culturale, con Bettino Craxi, la crescita dell'Italia insieme al debito pubblico, i riti e i miti della Prima Repubblica, i rapporti oscillanti con il Pci di Enrico Berlinguer, la faida continua con gli altri cavalli di razza democristiani. Tanti i difetti del demitismo, e dell'antidemitismo, ma insomma, confrontata ai protagonisti odierni, quella sembra una generazione politica di giganti.
Dalla retorica e dalla filosofia alla gestione del sottopotere spicciolo. La grandezza delle contraddizioni. «De Mita fu il più concreto e il più astratto dei capi dc - spiega Marco Follini - Parlava a braccio, perdendosi nelle subordinate, volando alto e seguendo il filo di ragionamenti concettuosi e immaginifici. E poi calava nel sottosuolo locale e amicale da cui ogni leader trae la sua forza». Paolo Cirino Pomicino ricorda «la spigolosita» del carattere. «Nella sua idea però un conto erano le divisioni su questioni pure importanti, un altro la ricerca delle intese possibili per raggiungere gli obbiettivi. Non a caso è stato uno dei segretari più longevi, sette anni». E racconta Gianfranco Rotondi, un altro che lo conosceva bene: «Da un po' il suo cruccio era che il popolarismo fosse il solo pensiero vincente e attuale, ma che non producesse più politica. Però negli ultimi mesi era arrivato a un'altra conclusione, e cioè che non fosse il popolarismo a perdere, ma la politica ad essersi separata dal pensiero».
E torniamo così alla vecchia definizione, alquanto snob, che gli aveva incollato Gianni Agnelli, l'intellettuale della Magna Grecia.
Clemente Mastella prova a rovesciare il concetto. «Ha portato la cultura di provincia a Palazzo Chigi e alla guida del Paese, ha rinnovato il senso dei cattolici in politica. E con l'intuizione di Sergio Mattarella penso che gli dobbiamo parecchio».
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