Ha il fucile a tracolla, lo sguardo concentrato e tra le mani regge qualcosa. Da lontano sembra un fagottino qualunque, poi piano piano si avvicina: invece è un neonato di tre, massimo quattro mesi. Una bambina nelle braccia di un soldato, l'innocenza nelle mani della forza. Un'anziana scoppia a piangere. «Lì dentro c'è un odore insopportabile - dice il soldato - c'è puzza di morte, di carne bruciata, di esplosivo». Lì dentro c'è l'inferno dei bambini, lì dentro, nella scuola di Beslan, ci sono belve che non conoscono pietà. Raccontano storie che fanno paura, di uomini che non smettono mai di urlare: «Se fate rumore vi ammazziamo, nessuno deve piangere, nessuno deve gridare». Due bambine non ce la fanno, hanno una crisi di pianto, spariscono con due di quelle bestie nella sala degli attrezzi. Due colpi di pistola e la bambine non tornano più. Al numero 26 di via Oktiabraskay, dove montano un obitorio improvvisato, arrivano cinque bambine. Sono immobili. Hanno tra i 7 e i 12 anni. I loro vestiti sono lacerati, i loro corpicini coperti di sangue. Il medico si china e le esamina con attenzione. Quando finisce si asciuga le lacrime: «I terroristi le hanno stuprate prima di ucciderle». Una donna ascolta quelle parole e sviene. Alla richiesta di acqua e ai primi svenimenti, i terroristi non battono ciglio. Anzi, ridono. Per calmare la sete molti sono costretti a bere l'urina. Non c'è sonno tra i prigionieri, ma uno stato di semiveglia misto a sfinimento. Dormire e morire potrebbe essere la stessa cosa. Chermen Bugulov, otto anni, racconta: «Un uomo si è lamentato, gli hanno sparato allo stomaco. Le sue viscere sono uscite, uno dei terroristi l'ha trascinato via come una bestia macellata. Camminavano nel suo sangue».
Una giornata di festa
Doveva essere un giorno di festa per la scuola di Beslan, come per quelle di tutta la Russia. Un giorno baciato dal sole, ancora caldo, di fine estate. Il primo giorno di scuola festeggiato insieme alle famiglie, con i maschietti della prima elementare vestiti in uniforme blu e berrettino azzurro con stella gialla sulla testa e le femminucce anche loro vestite di blu, ma con la gonna e i capelli raccolti da un grande fiocco bianco. Si tengono per mano in fila per due, lo sguardo curioso, con mamma, papà e qualche nonna a guardarli con tenerezza. A pochi metri dalla palestra troveranno su una barella uno zainetto rosa e viola, con un grande cuore e una scritta: «I love the school». Nessuno poteva immaginare quello che sarebbe successo
«Eravamo in piedi nel cortile - racconta Zaurbek Sumaratov, uno degli scolari - all'improvviso ho visto tre uomini con le mitragliette in pugno correre dentro la scuola. Pensavo fosse un film. Ma hanno cominciato a sparare in aria e a spingere tutti bambini dentro la scuola». Non sono tre ma una trentina. Entrano dentro con un camion della polizia rubato. Sono tutti vestiti di nero comprese alcune donne, il volto coperto dal velo islamico, alla vita la «cintura dei martiri» piena di granate. Sono le vedove nere, le guerrigliere cecene votate alla morte.
La scuola è la numero uno di Beslan, una piccola città nell'Ossezia del Nord, una delle Repubbliche russe del Caucaso a pochi chilometri dalla Cecenia, terra dell'odio e della morte, prigioniera di una guerra per l'indipendenza che dura da più di duecento anni, violenta, crudele, senza pietà e repressa con inefficace brutalità dall'Armata di Mosca. Ogni scuola dell'Ossezia del Nord, è sorvegliata da una pattuglia di agenti. Non sono gli «omon», i reparti speciali dell'esercito russo e vengono colti di sorpresa, ma reagiscono subito. Sparano. I sequestratori rispondono, ma hanno giocato d'anticipo e sfruttano il vantaggio. Dentro la scuola ci sono 1200 bambini.
Sono lì con uno scopo preciso e se ne fregano della vita altrui e della propria. Il commando chiede il ritiro delle forze federali dalla Cecenia e la liberazione dei miliziani arrestati in Inguscezia. Il ricatto è agghiacciante: la morte di ogni combattente sarà vendicata con l'uccisione di 50 bambini. E Mosca non si azzardi a tentare un blitz perchè la scuola è minata. Condizioni che la Russia non può accettare. I terroristi radunano la maggior parte dei bambini nella palestra, altri vengono divisi in piccoli gruppi in alcune aule. Se si avvicinano alla finestra i terroristi li usano come scudo.
Sembra un'odissea destinata a durare giorni. Invece in un attimo finisce tutto, nel sangue e nella disperazione. Non è un blitz a scatenare la carneficina e nemmeno l'esecuzione programmata degli ostaggi, ma un imprevisto. Forse un equivoco tra i rapitori e il mediatore russo Rashal, forse il tentativo di fuga di un gruppo di ragazzi. Il commando apre il fuoco e fa brillare due mine, il tetto dell'edificio crolla, le forze speciali entrano in azione. Alcuni terroristi fuggono con addosso i vestiti degli ostaggi, altri si barricano in cantina. Alla fine della mattanza restano le pietre annerite, le travi bruciate, i muri sbrecciati, le pareti bagnate di sangue. E la puzza di morte. Le vittime sono 334, 186 bambini, i feriti sono più di 700. Ma molti sopravvissuti dentro di loro non guariranno mai.
Un'amico ritrovato
Elbrus Gogichaev è un uomo timido e gentile. Da quando non è più tenente delle forze speciali, è andato in pensione dieci anni fa, si è occupato di crescere i figli e di quel giorno maledetto non ha mai voluto parlare. Solo l'insistenza di Nelly Betcher, una giornalista della Rossiyskaya Gazeta, è riuscita a strappargli una frase: «Non fate di me un eroe, stavo semplicemente facendo il mio lavoro. Sentite invece lei: il suo essere sopravvissuta è un miracolo». Ma adesso è diverso. É stato invitato alla festa della maturità di Alyona e il suo cuore batte forte come la prima volta. Sono diciassette anni che non si vedono, lei lo chiama zio Elbrus, e i sensi di colpa non hanno mai smesso di perseguitarlo. A lei però tiene tantissimo. Perchè se la ricorda ancora la sua Alyona, Alyona Tskaeva, quando la vide per la prima volta: sembrava un fagottino qualunque invece era un neonato di tre, forse quattro mesi. Le aveva appoggiato le labbra sulla fronte per non farla piangere e la teneva stretta al cuore. «Sono felice di vederla, ma ho paura di ricordare quell'orrore». Si ritrovano di nuovo davanti a una scuola e si abbracciano come la prima volta, parlando fitto fitto di cose che sanno solo loro. Uniti per l'eternità.
La mamma che non c'è più
Alyona la mamma non ce l'ha più. Fatima rimase intrappolata con i tre figli nella scuola, ma il secondo giorno, i terroristi decisero di liberare i suoi bambini. Consegnò così la sua piccola al tenente Gogichaev e tornò indietro per recuperare gli altri due, Makharbek, tre anni, e Kristina, sei. Riescì, pregando Dio ci fosse qualcuno a raccoglierlo, a gettare Makharbek da una finestra, ma non Kristina. Non uscirono più, ci sono anche loro, mamma e figlia, nell'elenco delle vittime. Nessuno della famiglia riuscì per anni a spiegare ad Alyona come erano morte sua madre e sua sorella maggiore. Una volta però disse alla nonna con espressione sera seria. «Ho un angelo custode che veglia su di me». Aveva capito.
É stato papà Ruslan a crescere Alyona e Makharbek. Si è risposato con Svetlana e hanno avuto un'altra bambina: l'hanno chiamata Kristina, come la figlia perduta.
Le finestre dell'appartamento dove vivono si affacciano su quell'edificio dove lei e Makhar sono stati tenuti in ostaggio per tre giorni. Alyona sogna di diventare medico, una volta pensava parrucchiera perchè le piaceva intrecciare i capelli dei suoi amichetti. Ma è salvare vite che vuole. Come le ha insegnato zio Elbrus.
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