«Da qui posso decidere se uccidere un uomo o salvargli la vita, ma a differenza di chi sta inginocchiato nel fango... non ho nessuna fretta. Posso guardare con calma... senza farmi prendere dal panico o dall'eccitazione».
Il capitano O. me lo spiegò l'11 agosto del 2006 e l'indomani lo scrissi su queste pagine. Al confine libanese infuriavano gli scontri con Hezbollah, ma alla base aerea di Tol Nof , 30 chilometri a sud di Tel Aviv, la guerra era un film. Scorreva lenta sullo schermo, disegnava postazioni amiche e nemiche, cambiava angolazione al ritmo del mouse di capitan O. E cancellava con vampate mortali innescate da un semplice tocco quei guerriglieri che tenevano inchiodate le unità israeliane. Il tutto mentre l'Heron, un uccellaccio telecomandato di 16 metri guidato dal mousse di capitan O., violava con impercettibili ronzii i cieli libanesi.
Quel giorno non capii ancora come, ma intuii che i droni avrebbero cambiato la guerra. Gli israeliani li usavano dal 1971, ma non erano i soli a impiegarli. La tecnologia dell'Heron era stata «rubata» agli americani che nel 2001 sperimentarono i droni per colpire gli avamposti talebani nascosti tra i picchi afghani. Con Obama diventarono i plotoni d'esecuzione volanti mandati a falciare i terroristi inseriti nelle liste nere della Cia, ma nascosti a migliaia di chilometri di distanza. Esecuzioni messe a segno da una base aerea nei dintorni di Las Vegas collegata via satellite ai droni in volo su Afghanistan o Somalia. E in Afghanistan un colonnello dell'aviazione italiana alle prese con apparecchi ancora disarmati mi spiego la capacità di vedere nel tempo regalata ai droni dalle telecamere termiche. «Immaginatevi dei mezzi militari parcheggiati e poi spostati... Il drone grazie alla traccia termica disegnata dall'ombra dei mezzi, ovvero la temperatura più bassa del terreno, ci dirà dove e quanti erano». Il peggio lo capii nel 2020 nel Nagorno Karabakh l'enclave cristiana strappata agli azeri e controllata dagli armeni fin dal 1994. Da allora quella guerra non era mai cambiata. Si combatteva tra dedali di trincee e filo spinato, con tanto di barattoli e lattine bucate per segnalare, come sul Carso un secolo prima, le incursioni nemiche. L'arrivo dei droni forniti agli azeri dalla Turchia di Erdogan cambiò tutto. Invisibili, ma spietati gli aerei senza pilota decimavano le colonne armene dirette al fronte. E così in poco più di un mese regalarono a Baku il totale controllo dell'enclave cambiando il corso di un conflitto rimasto immutato per 26 anni.
In Ucraina e Medioriente i droni stanno invece ribaltando giochi e scenari bellici globali. Kiev è stata la prima a comprenderne l'importanza acquistandoli dalla Turchia e sviluppando tecnologie fornite dalla Nato. E così i quadricopteri capaci d'inseguire i soldati russi fin dentro le trincee e filmarli prima di dilaniarli a colpi di granate sono diventati i protagonisti degli spezzoni d'orrore trasmessi quotidianamente su YouTube. Ma con i droni in scena la trama bellica può facilmente ribaltarsi. I russi in meno di un anno hanno imparato a intercettare i sistemi di guida nemici rendendoli ingovernabili. Ma la vera intuizione di Mosca è stata capire che un drone Hesa Shahed prodotto dall'Iran e capace di colpire a 2.500 chilometri di distanza costa neanche 20mila dollari, duemila volte meno dei missili americani Patriot da 4 milioni di dollari l'uno con cui la Nato difende le infrastrutture ucraine. Un paradosso bellico ed economico ancor più rilevante in Medio Oriente dove i droni lanciati dagli Houthi contro le navi in transito nel Mar Rosso costano anche meno di mille dollari. Mentre non cambia il valore dei missili necessari ad abbatterli.
Gli unici, forse, ad avere una soluzione a basso costo siano noi italiani.
Per abbattere i due o tre droni degli Houthi intercettati dai suoi radar il cacciatorpediniere Caio Duilio ha usato almeno una volta i proiettili esplosivi del cannone 76/62 SR prodotto dalla Leonardo. Ognuno di quei proiettili costa mille euro e ne servono cinque o sei per abbattere un singolo drone. Sempre meglio dei costi affrontati dalla Nato in Ucraina o dagli Stati Uniti nel Mar Rosso.
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