Le intercettazioni dei magistrati uscite sui giornali danno uno spaccato inquietante sulla magistratura...
«Non sono ossessionato dalle intercettazioni, telefoniche, ambientali e telematiche, quale mezzo di ricerca della prova, e parlo, ci tengo a precisarlo, come esperto di tecniche d'investigazione. Al di là dell'enorme business economico che esse mobilitano, le prove che finiscono per produrre sono esigue, ma i materiali che se ne ricavano, molto spesso, quando addirittura non siano utilizzati per infami ricatti, sono spesso utili, piuttosto, a condizionare gli esiti di feroci partite di potere». Al telefono risponde il giudice Otello Lupacchini, memoria giudiziaria storica della peggio gioventù italiana, dalla Banda della Magliana ai terroristi. Oggi che il prestigio della magistratura viene calpestato da alcune imbarazzanti intercettazioni telefoniche, l'ex Procuratore generale di Catanzaro cacciato (per ora...) dalla Calabria per una battuta sul pm antimafia Nicola Gratteri non nasconde il suo disprezzo. «Pur non disponendo delle intercettazioni autorizzate dall'autorità giudiziaria perugina, mi limito semplicemente a osservare l'osceno spettacolo di un'opinione pubblica tanto più propensa all'indignazione quanto più povera di strumenti critici per smascherare il gioco al massacro degli imbonitori di turno. Sarei, comunque, ipocrita se nascondessi il disgusto che provo nel vedere distrutte reputazioni personali e credibilità delle Istituzioni».
La politica fa pressioni sulle toghe, l'abbiamo capito. È sempre stato così?
«In epoca non sospetta, in un mio libro di assai modesto appeal, nel dar conto del conflitto costituzionale ho sottolineato che questo non è fenomeno né nuovo né esclusivamente italiano: la tensione tra politica e giustizia è generale e peraltro, presenta nel tempo un corso altalenante, tanto che l'atteggiarsi dei rapporti tra i contendenti si può ormai descrivere attraverso L'apologo del Garigliano di bruniana memoria, magistrale metafora del principio omnium rerum vicissitudo est, tutto può cambiare e andare all'incontrario».
Il giornalismo politico è morto ed è diventato giornalismo giudiziario. Parole sue. Colpa di certi cronisti caselle vocali dei pm?
«Questa convinzione l'ho esatta dai fatti: vi sono magistrati del pubblico ministero che coltivano un sogno e cronisti che, a loro dire, hanno il coraggio di essere rivoluzionari e andare controcorrente. Uno di questi magistrati, non certamente l'ultimo arrivato, parlando di un grande giornalista con la schiena dritta, si è espresso dicendo: aveva capito quello che stiamo facendo alla Procura di Noi abbiamo in testa un'idea, un progetto e lui con i suoi scritti lo ha sostenuto».
Che ne pensa della separazione delle carriere?
«La mortificazione del ruolo del giudice, rispetto allo strapotere che nasce dalla sovraesposizione, non soltanto mediatica, del ruolo dei titolari dell'azione penale, sempre più vicini al Potere politico, imporrebbe, a mio sommessissimo avviso, un riequilibrio, in termini di recupero dell'autonomia, dell'indipendenza e della credibilità del momento giurisdizionale, ma anche della parità delle armi tra Accusa e Difesa, che passa necessariamente attraverso la separazione delle carriere. La cultura della giurisdizione, in nome della quale si vorrebbe tenere unito il corpus della Magistratura, è ormai un logoro luogo comune, quando i fatti dimostrano, invece, che la cultura dominante è, ormai, quella della prevalenza della funzione d'accusa a ogni costo».
Che idea si è fatta del caso Salvini-Ong? Secondo lei ci sono i presupposti per una condanna o è un processo che non andava neanche istruito?
«Se è vero quanto narrato circa le intenzioni ed i consigli elargiti sul dover attaccare l'ex ministro ad ogni costo, provenienti da un magistrato di peso più che imbarazzanti sono allarmanti. A Matteo Salvini sono stati contestati dei reati. Non dispongo di elementi idonei a esprimere un giudizio: i fatti che si conoscono, o almeno i fatti che conosco io, sono quelli condotti a emersione da un dibattito parlamentare, in sede di autorizzazione a procedere, che, a tutto voler concedere, è stata una operazione tesa a persuadere piuttosto che a dimostrare. Sarebbe temerario esprimere un giudizio su quelle risultanze. Il processo penale dovrebbe essere il banco di prova della civiltà: in quella sede e in quella soltanto, dunque, dovranno ricostruirsi i fatti di cui solo il giudice, nel contraddittorio fra le parti, predicherà il valore. Il risultato del processo potrà essere condiviso o criticato, ma solo dopo che la sentenza sarà stata pronunciata e motivata».
Ieri era l'anniversario della morte di Giovanni Falcone. Qualcuno dice che la sua fine iniziò quando finì stritolato nei giochi delle correnti del Csm...
«Giovanni Falcone era un uomo solo. In molti portano la responsabilità di quella solitudine. Nel 1989, dopo la fine del maxi-processo, che aveva inflitto ai mafiosi una grandinata di ergastoli e centinaia di anni di galera, gli fecero un attentato all'Addaura, che fortunatamente fallì. Vi fu addirittura chi disse che se l'era fatto da solo per assurgere a martire. La magistratura, che aveva da un ventennio riguadagnato autorevolezza e indipendenza, in quel caso ne fece un pessimo uso. Soprattutto le correnti dell'Anm alzarono una selva di pretesti per negargli l'accesso ai vertici degli uffici giudiziari di Palermo e poi alla Procura nazionale antimafia».
Una domanda sulla Calabria gliela devo fare, Lei è libero di non rispondere...
«Per dirla con Ludwig Wittgenstein, su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere, tuttavia, parafrasando Tomasi di Lampedusa, l'unica cosa che posso dire è che in nessun luogo quanto in Calabria la verità ha vita breve: il fatto è avvenuto da cinque minuti e di già il suo nocciolo genuino è scomparso, camuffato, abbellito, sfigurato, oppresso, annientato dalla fantasia e dagli interessi; il pudore, la paura, la generosità, il malanimo,
l'opportunismo e la carità: tutte le passioni, tanto le buone quanto le cattive, precipitano sul fatto e lo fanno a brani. E la verità scompare, mentre si imbavaglia chi abbia il coraggio di adempiere al dovere di dirla».
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