Dopo ben dieci giorni di trattative, limature e negoziati, la «manovrina» è approdata solo ieri al Quirinale. Ora si attende la firma del Capo dello Stato. Dopo di che inizierà la corsa contro il tempo per approvarlo in Parlamento prima della scadenza del decreto, dopo sessanta giorni: l'avvio in commissione è previsto per mercoledì, con il rischio che la incombente campagna elettorale per le amministrative provochi una serie di tentati assalti alla diligenza. E già si prefigura il voto di fiducia per chiudere la partita senza danni eccessivi.
La chiamano manovrina, ma si tratta in realtà di un decreto omnibus di 68 articoli, mirato ad una correzione dei conti per 3,4 miliardi di euro. Noto, invece, è il braccio di ferro tutto politico che ha caratterizzato le ultime settimane, e contribuito allo slittamento dei tempi e al lungo interludio tra il varo del decreto, nel Consiglio dei ministri dell'11 aprile scorso, e l'invio del testo al Quirinale ieri. «Si tratta quasi di una finanziaria, il ritardo è stato necessario per limare i testi», si è schermito Pier Carlo Padoan da Washington. Ma lo scontro che ha appesantito il turbolento vari della manovrina prefigura quello ben più epocale che inizierà subito dopo per la manovra vera, quella d'autunno. Che cadrà in piena campagna elettorale per le prossime politiche. Da una parte il Pd di Matteo Renzi, che non vuol sentir parlare di austerity né di nuove tasse, perché «Dracula lo abbiamo rottamato». Dall'altra i «tecnici» del governo, da Padoan a Calenda, che vogliono evitare una nuova deviazione dell'Italia dagli impegni di finanza pubblica assunti nella Ue e che invocano il problema della «reputazione» italiana, ossia della sua credibilità sui mercati. Nel mezzo il premier Paolo Gentiloni, che tra una settimana - dopo le primarie del 30 aprile - si troverà sul collo il fiato di un segretario del Pd nel pieno delle sue funzioni, che chiederà di riaprire un braccio di ferro con l'Unione europea perché «non possiamo farci dettare l'agenda dall'Europa». Renzi ha già dettato l'altolà allo scambio, ipotizzato da Padoan, tra aumento dell'Iva (che secondo i calcoli potrebbe valere fino a 20 miliardi di gettito) e taglio del cuneo fiscale, perché «il Pd non aumenta le tasse». Chiede quindi il congelamento delle clausole di salvaguardia sull'Iva, così come ha fatto per le nuove aliquote catastali. Senza ricorso al prelievo fiscale, difficilmente però si troveranno risorse per il taglio del costo del lavoro, così come per il ritocco delle aliquote Irpef, che infatti è sparito dal Def. E il freno Pd ha agito anche sul piano di privatizzazioni, 5 miliardi da Trenitalia e Poste inseriti da Padoan nel Def, per il timore di contraccolpi elettorali.
Ma nella nuova sfida all'Europa sui margini di flessibilità, auspicata da Renzi, difficilmente aiuteranno l'Italia responsi come quello di Fitch, che ha abbassato il rating del Paese per gli «aumentati rischi di instabilità politica», dopo il fallimento del referendum istituzionale e la crescita dei populisti. «Non accetto la parola fallimento usata da Fitch per il debito italiano», replica Padoan. «È fuori luogo, si è stabilizzato anche se mi piacerebbe un calo più rapido. La crescita è ancora lenta, ma nel 2018 e 2019 mi aspetto un'economia più forte». Protesta il sottosegretario all'Economia Baretta: «Se analizziamo i dati reali, il loro ragionamento sinceramente non convince. Mettono insieme una somma di opinioni interessanti ma oggettivamente discutibili».
Il rischio, denuncia, è «che si producano verdetti che possono influenzare i mercati esteri, danneggiando gli interessi del Paese senza che vi siano valutazioni oggettive ed è grave». Si eccita invece l'aspirante premier grillino Luigi Di Maio: «È una lenta agonia che ci porterà nel baratro finanziario».
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