
Per non perdere l'orientamento nella confusione che avvolge in questo momento il Pd devi affidarti a uomini di esperienza altrimenti rischi di scambiare lucciole per lanterne. «Per indire un congresso straordinario - spiega un ex segretario come Piero Fassino - la Schlein deve dimettersi e la palla passerebbe al presidente, cioè Bonaccini, che da reggente dovrebbe gestire l'iter congressuale. Su questo lo statuto del partito è chiaro, non ammette deroghe. Una tragitto che potrebbe andare avanti per sei mesi. Ecco perché questa ipotesi già non esiste più. Di fronte a queste cose viene una certa nostalgia per le vecchie classi dirigente come Berlinguer, Natta, D'Alema o Veltroni per parlare dei comunisti, o dall'altra come De Mita o Prodi per guardare sul versante democristiano, non avrebbe mai commesso un simile errore da matita rossa». Eh sì perché la prima reazione di Elly Schlein alla spaccatura che c'è stata nella delegazione del Pd al Parlamento di Strasburgo sulla risoluzione di «ReArm Eu» (metà a favore e metà si sono astenuti) è stata quella di un congresso di redde rationem.
Un'idea maturata su consiglio della premiata coppia Sandro Ruotolo-Marco Furfaro per bacchettare sulla dita i riformisti ribelli e riportarli all'obbedienza e alla disciplina. Solo che l'anima ortodossa dello «schleinismo» non è avvezza a leggere statuti o a districarsi tra le regole di un partito. Magari era ancora convinta che nel Partito democratico fosse in auge il centralismo democratico di una volta se non addirittura un'infarinatura di stalinismo cosa impossibile in una forza nata dal matrimonio tra ex-Dc ed ex-Pci. Così nel giro di 24 ore, alla vigilia della manifestazione di piazza del Popolo sull'Europa, tutti si sono resi conto che l'avevano fatta troppo facile, oppure che la stavano facendo troppo grossa, ed è partito il fatidico contrordine compagni. «Sì, sarebbe stata davvero un'operazione complicata», ammette lo stesso Stefano Bonaccini. Un'operazione del genere con le regole del Pd, infatti, si sarebbe trasformata in un boomerang clamoroso. Immaginate, infatti, la Schlein che si dimette e la gestione del congresso passa al presidente Bonaccini, cioè a chi aveva patrocinato a Strasburgo il fronte del «sì» alla von der Leyen. Di più nella veste di reggente l'ex-governatore emiliano avrebbe dovuto guidare il partito in due scadenze importanti come le elezioni comunali e i referendum di primavera. Insomma, al nocciolo duro dello «schleinismo» era venuta in mente un'idea malsana. Per mettere paura agli eretici avevano emesso un ruggito, il ruggito del coniglio. Venuta meno l'ipotesi del bagno di sangue di redde rationem sono tornate in auge le liturgie classiche di questi momenti e espressioni care al vocabolario piddino: «confronto vero», «conferenza programmatica», «referendum tra gli iscritti». Un armamentario impeccabile dal punto di vista «democratico» ma che si scontra con la gravità del momento e con la rapidità impressa ai processi decisionali dall'avvento del trumpismo. Quanto è avvenuto negli ultimi tre giorni dimostra quanto sia vecchio il Pd. Certo c'è chi sta peggio, c'è chi pensa di strumentalizzare la politica estera per un tornaconto elettorale, ma prendere decisioni che riguardano il ruolo internazionale con un orecchio alla piazza è un errore madornale. E la Schlein non è esente da questo errore. «Se non si fa ora, quando si farà un passo avanti sulla difesa europea? È dagli anni '90 che ci pensiamo senza far nulla» dice l'ex premier Paolo Gentiloni.
In fondo anche i padri costituenti avevano sottratto la politica estera (cioè i trattati internazionali) dalle materie referendarie consapevoli che per l'interesse nazionale a volte bisogna fare delle scelte impopolari e non guadare agli umori di un'opinione pubblica condizionabile. «E loro la sapevano lunga» ricorda Bonaccini. Un concetto avulso dalla politica di oggi. Nell'America di Donald Trump come nel Pd di Elly Schlein.
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