Da rimossa a grande "risorta". La morte è tornata fra noi

C'eravamo illusi di poterla nascondere. Ma la realtà oggi ce la risbatte in faccia con una forza inedita

Da rimossa a grande "risorta". La  morte è tornata fra noi

È tornata, in grande spolvero, la presenza meno desiderata, quella di cui a lungo si è preferito tacere, cancellandone ogni segno, creando appositi eufemismi par nasconderla. È tornata la morte, da tempo non più nominata neppure negli annunci funebri, perché dire «morto» fa impressione. È lei che oggi, con sempre maggiore invadenza, occupa le pagine dei giornali, è lei l'oggetto perturbante che si intravede nei commenti dotti sugli avvenimenti, anche quando non viene riconosciuta come la vera protagonista. Non solo nelle cronache del terrorismo, dove la sua presenza implacabile smaschera con arroganza i balbettii delle polizie, le stupidità delle tecniche, lo smarrimento dei potenti e perfino i deliri degli assassini. Da Nizza a Wuerzburg, a Monaco, a Reutlinge, è lei la padrona della scena che assegna i ruoli agli attori. Sempre diversi, di volta in volta: trentenni smagati da vite difficili, adolescenti frustrati, rifugiati disorientati, cui vengono attribuite militanze diverse, influenzamenti, problemi psichici, economici o sentimentali. È sempre lei, in realtà, che detta i tempi, e i modi. È ancora lei, la morte, a scegliere i luoghi, con l'esercitata sapienza degli archetipi, che compaiono dovunque loro serva per affermare la propria potenza, eterna. Eccola dunque irrompere con un camion di 17 tonnellate nella un tempo elegante Promenade des anglais di Nizza, sparare minacciando confusamente al McDonald di Monaco, balenare dentro un'accetta nell'anonimo vagone ferroviario di Wuerzburg, su un machete al doener di Stoccarda, in mezzo alla puzza di cipolla e di carne fritta nello strutto.

Non sono sempre dei disgraziati, però, i compagni di gioco e di recita che si sceglie. Una delle sue messe in scena più potenti di questi giorni è riassunta nell'immagine nerorossastra di centinaia di uomini nudi e in ginocchio, legati, in attesa di essere carcerati e processati dal Sultano del nuovo Impero Ottomano, col quale ha un'antica frequentazione, e dimestichezza. Niente di più sbagliato e superficiale, infatti, di immaginare questa protagonista (nuova in questo pezzo di secolo, ma ben nota in tutti quelli precedenti) come legata a una classe sociale, un contesto, una specifica ideologia. Si tratta di ben altro, molto meno futile e deperibile: è la morte, una potenza archetipica indipendente da ognuna di queste cose, e necessariamente presente nella vita umana. Come tutte queste forze naturali e transpersonali, archetipiche appunto, essa è sempre presente, non dissociabile dalla vita.

La fantasia folle degli ultimi decenni, rafforzata dall'aumento della ricchezza e dal prestigio di scienze come economia, tecnica e scienze mediche (in questo periodo presentate in modo unilaterale e materialista), è stata quella di sconfiggerla. E nell'attesa, anche perché se ne intuiva il persistente potere, non parlarne più. Si è mancato di rispetto alla morte, come del resto alla vita, di cui è l'altro volto, quello per certi versi ancora più sacro e misterioso. Per questo ora conquista tanto, e giustamente, la riflessione personale sulla vita e la morte lasciata a chi rimane dalla giornalista Letizia Leviti, con un video toccante e profondo. È infatti un documento che con la sua capacità di nominare la morte, segna già un passaggio a un possibile «dopo», a una fase meno superstiziosa e più realista, dove molte ansie e angosce possono acquietarsi in nuove (ma antichissime) consapevolezze.

Cacciata dal discorso comune infatti, dalla coscienza, dal rito, chiusa in impersonali, nascoste e costose camere mortuarie, la morte ritorna oggi nella vita di tutti con la potenza abituale a quei contenuti rimossi che non possono essere annichiliti dalle mode, o dai consumi, o dall'avanzare della tecnica. Come quando la morte compariva sotto forma di pestilenze, adesso nessuno può sfuggirle, nessuno può cacciarla, non ci sono classi, appartenenze, identità dove essa non possa irrompere, se vuole.

Come per ogni altro archetipo rimosso (come la natura primordiale, o la divinità, compresa la nascita, cui è spesso associata), la morte, devastante quando viene rimossa, si acquieta solo con il riconoscimento del suo eterno potere. Come dimostra la tragedia greca con un'efficacia che rimane intatta anche oggi (a condizione di non stravolgerla con presuntuosa superbia), gli dei offesi si calmano quando si torna ad onorarli. Quando l'uomo, come fa Edipo a Colono, esce dal suo delirio maniacale di onnipotenza, e accetta il suo destino, umano e mortale. Il suo limite. Tornando ad onorare tutti gli aspetti che lo limitano e così (come sapeva lo psichiatra e filosofo Karl Jaspers, uno dei fondatori dell'esistenzialismo) ne definiscono l'identità: la fatica, il confine, l'esperienza, l'amore condiviso, il sacrificio.

Tutte cose molto pratiche, nient'affatto ideologiche, delle quali la psiche umana ha assolutamente bisogno per rimanere coi piedi per terra e la testa alta, altrimenti impazzisce. Solo con questo ritorno all'umiltà, alla consapevolezza del limite, l'angoscia umana si calma, e la morte smette di essere un flagello, per ridiventare quello che è. La naturale compagna della vita.

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