Londra Theresa May ha ieri rassegnato le dimissioni da leader del partito conservatore inglese, come aveva promesso un paio di settimane fa. La lettera consegnata ai notabili del partito dà il via ufficiale alla corsa per la sua successione, in realtà cominciata ben prima del commosso annuncio dato in favore di telecamere lo scorso 24 maggio. I contendenti dovranno presentare ufficialmente le loro candidature entro le 17 di lunedì, al momento si contano una decina di sfidanti. Nelle settimane successive i parlamentari conservatori effettueranno una serie di votazioni successive, ognuna delle quali comporterà l'eliminazione del peggior classificato. Ne rimarranno solo due fra cui saranno chiamati a scegliere gli oltre 100mila iscritti al partito. Un processo che si dovrebbe concludere la settimana del 22 luglio, consegnando al vincitore la poltrona di primo ministro. Su cui nel frattempo continuerà a rimanere seduta May.
Nella corsa a Downing Street e' favorito l'ex sindaco di Londra Boris Johnson che si dovra' guardare le spalle soprattutto dagli attuali ministro dell'ambiente Michael Gove e ministro degli esteri Jeremy Hunt. Al di la' dei singoli nomi, la corsa può essere interpretata con una chiave di lettura piu' ampia che riconduce la contesa al confronto che ha paralizzato la politica inglese del dopo referendum sulla Brexit: uno scontro tra la fazione più anti Ue (cui e' da ascrivere Johnson) e quella invece più incline al compromesso (Gove e Hunt), che vede con orrore un no deal e ritiene fondamentale trovare un accordo. Perché al di là delle promesse elettorali su come risolvere lo stallo con Bruxelles che i candidati stanno già facendo circolare in interviste e sui social media, i numeri parlamentari non cambieranno: il nuovo premier non avrà una maggioranza parlamentare conservatrice e dovrà trovare alleati al di fuori degli scranni dei Tory. E un candidato che scalda i cuori della base conservatrice, come Johnson, non è detto che riesca a fare altrettanto a Westminster. Su una cosa tutti i concorrenti paiono pero' d'accordo: il partito conservatore rischia l'estinzione se non riuscirà a portare a compimento la Brexit. Dopo la batosta delle elezioni europee (quinto partito), un ulteriore campanello d'allarme è giunto giovedì notte: nelle elezioni suppletive di Peterborough, Midlands orientali, terra di brexiteers, il labour si è confermato primo partito (con una candidata pro Brexit), tallonato dal Brexit Party di Nigel Farage distanziato di poche centinaia di voti. Una conferma per i conservatori, giunti terzi, dell'urgenza di dare una risposta all'elettorato che nel 2016 votò leave e che si sta spostando inesorabilmente verso il partito di Farage. Il quale, cercando di passare all'incasso, ha ieri recapitato una lettera a Downing Street in cui chiede di poter sedere al tavolo negoziale con l'Europa. Un'idea suggerita da Donald Trump nella sua recente visita di stato, su cui si dovrà pronunciare il prossimo primo ministro stretto tra il rischio di dare visibilità al suo nemico più prossimo e la possibilità di cooptarlo al tavolo del potere disinnescandone così la minaccia. Qualsiasi sia la scelta, di sicuro nel breve periodo i Tory non indiranno elezioni anticipate per evitare il rischio di un annichilimento. Elezioni che a invece il labour di Jeremy Corbyn continua a chiedere e che rappresentano la prima opzione di un partito sempre diviso tra rincorsa del potere e un secondo referendum.
La sensazione che tutto a Westminster stia cambiando affinché nulla cambi è alta. Dopo una tregua di qualche mese il tema Brexit sta tornando in cima all'agenda politica inglese. Un'eredità che Theresa May non è riuscita a sfoltire.
Criminalità in aumento, scarsezza di case a prezzi abbordabili per la classe media, coinvolgimento di Huawey nella costruzione del 5G, situazione economica deteriorata, dove brilla l'unico successo della parabola May, una disoccupazione a un minimo storico al di sotto del 4%. Una lunga lista della spesa, su cui gli elettori non faranno sconti.
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