La rivoluzione a tre bottoni nella sartoria di Tong

Una giacca di lino perfetta (e a basso prezzo) spiega il miracolo economico cinese. E pone qualche dubbio

La rivoluzione a tre bottoni nella sartoria di Tong

Iniziamo oggi a ripubblicare, in occasione dell’anniversario dei 50 anni dalla fondazione del «Giornale», gli articoli che hanno fatto la nostra storia. Cominciamo da un reportage di Stenio Solinas, scritto nel 2008 durante le Olimpiadi di Pechino. Perché dietro alle gare sportive, era proprio la Cina il protagonista al centro della curiosità del mondo.

Ci sono cose che ti sfuggono, e noi giornalisti siamo qui per raccontarle, non per spiegarle. Giorni fa sono andato in un grande magazzino cinese dell'abbigliamento, quattro o cinque piani pieni di stand piccoli e grandi, il terzo adibito a sartoria. C'è il confezionato, naturalmente, ma essendo appunto cinese l'ho saltato a piè pari, e c'è il su-misura. C'erano belle pezze di lino sui banconi, ho scelto una tonalità di bianco e una di blu che in Italia avevo cercato senza mai trovarle. Mister Tong, il sarto, un trentenne magro magro, mi ha preso le misure e poi, soprattutto, si è messo a ridisegnare i dettagli della giacca, anche questa di lino, che indossavo, quella fatta dal mio sarto di Milano e di cui mi vergogno a dire il prezzo se no mi prendete per cretino. «Molto ben lavorata, non facile da ripetere» mi diceva rimirandola estasiato. Ti credo, ho pensato fra me, con quello che l'ho pagata. «Le voglio tali e quali», ho detto con fierezza. Lui ha continuato a prendere appunti e a disegnare figurini nemmeno fosse Armani. «Le va bene la prova-consegna fra quattro giorni?», ha detto alla fine. Magnanimo, ho acconsentito. A Milano mi ci vogliono due settimane solo per vedere la prima imbastitura: come dice il mio sarto, «i signori non hanno fretta» e così sei fregato.

Prima, naturalmente, avevo trattato il prezzo, non con Tong, che è un professionista, ma con Jenny, una delle commesse. Si è partiti da duemilaquattrocento renmimbi, che vuol dire la moneta del popolo, ovvero 240 euro, e a me sembrava più che conveniente, ma l'amico italiano che mi aveva portato qui mi ha guardato con disprezzo. «Sei pazzo a darle tutte queste rupie», mi ha detto. Avendo letto Salgari in tenera età, è rimasto con l'idea che la moneta base per indicarne una di scarso valore sia questa: «Offrigliene mille e chiudi a milledue», ha tagliato corto infastidito. Ho eseguito l'ordine e ora indosso quella bianca davanti allo specchio, prima di andare a cena e pavoneggiarmi con qualche collega: non fa una grinza, cade perfettamente, è sfoderata all'interno, tre bottoni, spacchi laterali, le asole delle maniche che si slacciano, è un perfetto esempio di alta sartoria che mi è costato 60 euro.

Molti esperti di economia si ostinano a considerare la Cina un Paese tecnologicamente semi-avanzato. L'abbondanza di mano d'opera a basso costo, dicono, riduce l'interesse delle aziende a fare il necessario balzo tecnologico: costa meno prendere più lavoranti che investire in nuove macchine, insomma. È una considerazione giusta, così come è giusta quella che vede esistere un largo divario fra quanto qui si spende in ricerca e sviluppo e quanto invece nelle nazioni tecnologicamente avanzate. James Kynge, l'autore del bellissimo China shakes the World, con cui due anni fa ha vinto il premio per il miglior libro economico dell'anno, ha calcolato che la differenza fra Stati Uniti e Cina in questo campo è di ventidue a cinque rispetto al prodotto interno lordo. Ancora, c'è chi sostiene che lo scarso rispetto cinese nei confronti della proprietà intellettuale, del diritto d'autore, blocca lo spirito innovativo: ai 150 brevetti di invenzione procapite dei Paesi industrializzati, la Cina ne contrappone solo cinque. Io non capisco niente in materia, e i soldi non li so far fruttare, ma solo spendere, tuttavia in queste intelligenti osservazioni mi sembra che non si colga un punto: l'ascesa rapidissima della tecnologia cinese non è legata alla ricerca, ma al commercio, al mercato. Le compagnie cinesi comprano le tecnologie, o le copiano o le ottengono come contropartita dell'ingresso di un partner straniero nel loro mercato interno. Più che la ricerca e lo sviluppo, è la globalizzazione che è il suo catalizzatore principale.

Così, mentre rimiro le mie giacche mi chiedo se sono uno che lavora per l'amicizia dei popoli, o un collaborazionista che si sta mettendo, più o meno consapevolmente, al servizio di una potenza straniera, perché poi io ai cinesi voglio bene e quando glielo dico, «Uò ai zungkuojien», a loro vengono gli occhi rossi... E però mi chiedo anche quanto ci vorrà perché il gentleman britannico che è solito frequentare Savile Road, la via dei sarti londinesi, cominci a domandarsi se, una volta prese le misure nella lussuosa bottega tutto cuoio e legni, la manifattura dell'abito non venga poi eseguita da qualche Mister Tong pechinese e se allora abbia ancora un senso pagarla dieci volte tanto. Certo, c'è il brand, il marchio, che il Made in China non possiede: le Olimpiadi, in fondo, servono anche a questo, a ripulire un'immagine che fra prodotti poveri, contraffatti o mal copiati, sfruttamento del lavoro, repressione dei diritti umani, nepotismo, corruzione, inquinamento, colora quel marchio ancora troppo in negativo. E però, il tempo è un concetto che per gli occidentali, che ne sono ossessionati, significa una cosa ben precisa, e per gli orientali, e i cinesi in particolare, assume invece connotazioni più vaghe.

Quando chiesero a Chou En Lai, altro nome mitico del maoismo, che era stato educato in

Francia, se riteneva la Rivoluzione del 1789 riuscita o meno, la risposta fu che era ancora troppo presto per dare un giudizio. Nemmeno io ho fretta, per almeno un'altra estate come giacche di lino sono a posto.

12 agosto 2008

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