Sanzioni e polemiche per la tazzina a due euro. La battaglia dei costi del caffè divide l'Italia

L'espresso calmierato avvilisce chi lavora una materia prima d'eccellenza

Sanzioni e polemiche per la tazzina a due euro. La battaglia dei costi del caffè divide l'Italia

Un uomo entra in un bar e chiede un decaffeinato. Sembra l'inizio di una barzelletta, è l'inizio di un mezzo disastro. Il tizio beve il suo «dec» e quando gli vengono chiesti due euro si infuria e chiama i vigili. Il locale si becca una multa da 1000 euro. Non per il prezzo in sé ma perché non indicato sul listino. Almeno su quello esposto, perché su quello scaricabile con Qr code il prezzo era ben chiaro.

La vicenda è avvenuta a Firenze qualche giorno fa. E non in un bar come tanti, ma in Ditta Artigianale, uno dei templi italiani dello specialty coffee, il caffè di altissima qualità lavorato con grande cura ed estratto con metodi spesso alternativi all'espresso. Lui, il barista multato, è Francesco Sanapo, tre volte campione italiano di caffetteria. Eccellenze che evidentemente il cliente ignorava. Lui era entrato in quel bar come un italiano medio, abituato a sborsare un euro, al massimo un euro e dieci cent per la tazzina quotidiana (e pure senza caffeina, nel suo caso). Ma la vicenda, al di là dei risvolti burocratici ripropone un tema sempre caldo: qual è il prezzo giusto per il caffè? Esiste un'asticella psicologica per la remunerazione di una tazzina? Ed è vero che gli italiani scenderebbero in piazza per difendere un prezzo calmierato dell'espresso come non fanno nemmeno per la benzina?

Intanto è il caso di fare chiarezza. Il caffè viene spesso considerato una commodity, ovvero uno di quei beni scambiati sul mercato globale in modo fungibile, dando quindi per scontato che le differenze qualitative, se pure ci sono, siano insignificanti. Un esempio è la benzina: nessuno pensa davvero che un distributore eroghi carburante di qualità superiore rispetto a un altro. L'unica discriminante è il prezzo, oppure la comodità o di una stazione di servizio. Ma il caffè no: può essere buono o cattivo. Può essere di arabica o di robusta, monorigine o miscela, di qualità elevata o scadente, lavorato bene o sciattamente. Soprattutto, può avere un costo molto differente all'origine.

Quindi perché scandalizzarsi se un espresso costa 1,50 o perfino 2 euro quando questo sovrapprezzo serve a remunerare una selezione più accurata e un lavoro più attento? Eppure le stesse persone che vorrebbero un prezzo politico per una tazzina sanno bene che esistono il Sassicaia e il Tavernello, il Rolex e il Casio, Prada e H&M. «Credo che non esista nessun altro prodotto in commercio - spiega Andrej Godina, PhD in Scienza, tecnologia ed economia dell'industria del caffè - che al variare della qualità non veda cambiare anche il prezzo». La colpa è del fatto che, soprattutto in Italia, il caffè è considerato un prodotto nazional-popolare che non può superare la soglia psicologica dell'euro anche a costo di non remunerare il lavoro di chi lo produce, lo lavora e lo trasforma. E sul prezzo della tazzina incidono costi di gestione non indifferenti (lavoro, elettricità, attrezzature, affitto, materie prime) tutti pesantemente aumentati negli ultimi mesi.

E allora? Secondo Mauro Illiano, esperto di vino e caffè e curatore della prima Guida dei caffè e delle torrefazioni in Italia, «bisogna incentivare tutti i protagonisti interessati, dalle torrefazioni alle caffetterie, dai ristoranti agli hotel, a stilare una carta dei caffè che permetta finalmente di sdoganare la tazzina dalla sua costante di prezzo. Come si può pensare di porre sullo stesso piano economico un caffè coltivate in piantagioni intensive a cielo aperto e uno ottenuto da piantagioni site nei luoghi più angusti e impervi del pianeta?». A ogni caffè il suo prezzo.

Ma con un avvertenza. «Se compro un caffè che costa il doppio o il triplo di un altro - avverte Illiano - ho la curiosità oltre che il diritto di sapere perché». Ed è questo probabilmente che è mancato a Firenze quella mattina.

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