Le possibilità tecnologiche e il rigore scientifico: due mondi che possono convivere ma non senza un controllo istituzionale che metta dei paletti all'iniziativa dei singoli medici. «Su questi temi è in corso un dibattito etico e in seno alla comunità scientifica non c'è un consenso largo» - spiega Adele Fabrizi, psicologa e psicoterapeuta nonché docente di Sessuologia Clinica all'Università di Roma Tor Vergata. «Diversi psicanalisti si oppongono a queste soluzioni perché a distanza si perdono occasioni importanti di reciprocità: il contatto con gli occhi, il linguaggio del corpo, e anche il rituale che precede e segue l'appuntamento fisico».
Che autonomia ha il singolo analista nella scelta delle tecnologie?
«Ci sono norme deontologiche dell'Ordine degli Psicologi che fanno alcune distinzioni: ad esempio è stato espressamente stabilito che si può fare psicoterapia su Skype. Il telefono non viene molto utilizzato, Whatsapp e le email invece si».
La terapia online è solo un surrogato o può essere particolarmente indicata per alcuni tipi di patologie?
«Può esserlo, soprattutto per quelle legate agli stati d'ansia, come fobie attacchi di panico, disturbi ossessivo-compulsivi o proprio per le varie forme di dipendenza da internet. Ma non perché siano patologie più sensibili al trattamento telematico, bensì perché possono essere approcciati meglio da una terapia cognitivo-comportamentale che si applica bene anche online».
Lei come la pensa? Ha pazienti che segue a distanza grazie al computer?
«Ci sono vantaggi e svantaggi, non sono favorevole al 100% ma nemmeno chiusa a queste nuove possibilità.
Utilizzo Skype solo con pazienti che già conosco e coi quali già c'è stato un rapporto terapeutico, oppure per supervisionare i colleghi in formazione. Personalmente, però, non inizierei mai una psicoterapia partendo da Skype».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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