Si può amare tutto il mondo senza mai uscire dalla propria stanza? Si: si può. L'amore che Emily Dickinson dichiara in questa lettera è - come tutti quelli della poetessa americana - frutto esclusivo della sua mente. È un amore visionario, coltivato lontano dal proprio oggetto. Emily passò praticamente tutta la vita reclusa nella casa dei genitori. Non ne uscì quasi mai; fece solo due o tre viaggi, passando le giornate nella propria camera, tutta arredata di bianco. Il suo mondo era quello. Fu lì che scrisse tutte le sue poesie; la maggior parte delle quali - infatti - venne scoperta solo dopo la sua morte. Da questo suo mondo usciva solo con la fantasia. E poiché era abitata da una fantasia straripante, anche gli amori che provò, nonostante l'incredibile auto-sepoltura - o forse proprio grazie ad essa - erano tali da provocarle (come in questa lettera) «ubriacatura» e «stordimento».
Incontrò di rado le persone che amò, e non ebbe con esse alcun contatto fisico. Anzi: apparentemente minuta e fragile, come per tranquillizzare il suo amato, qui lei si definisce «piccolina». Ma tutto era, Emily, fuorché «piccolina». La sua era la fantasia d'un gigante, invece; così espansa, veemente e alluvionale, da potersi appena contenere in quella bianca stanzetta. Ben poche altre donne - forse le mistiche, le visionarie: penso alle estasi di santa Teresa d'Avila - possono coltivare amori cerebrali così totalizzanti. Certo: la nostra epoca, che è molto modesta, e che fa all'amore come se facesse ginnastica, giudicherebbe il suo un caso clinico. Nel migliore dei casi direbbe, con espressione tipicamente banale, che la Dickinson «si faceva dei film». Nel peggiore la farebbe ricoverare in manicomio. Oggi qualunque donna, anche le più romantica, non accetterebbe mai che un amore, per quanto intenso e trascinante, si esprimesse su un piano esclusivamente cerebrale.
La fisicità resterebbe comunque essenziale. Qualunque donna; ma non Emily Dickinson. Lei non era una donna qualunque. Era visionaria, immaginifica, ipersensibile. Era un fiore di serra. Solo al chiuso di quella stanzetta, avrebbe potuto fiorire. Se ne fosse uscita, il mondo l'avrebbe uccisa. Tanto più un mondo come quello americano dell'800, dominato da precise e ineludibili regole. E invece, per nascere e svilupparsi, gli amori di Emily non hanno neppure bisogno di essere corrisposti. Si: l'inconsapevole Higginson avrà avuto per lei frasi gentili, complimenti... Ma un sentimento che non è concreto non ha bisogno di concretezza. Basta a sé stesso. Deve solo volare alto: è in alto che provoca l'ebbrezza. Una donna comune non reggerebbe simili ubriacature. Rimane solo da capire cosa le donne comuni possano condividere, cosa riconoscere di proprio, nei versi d'amore di Emily. Forse il desiderio di guardare oltre. Di volare più alto.
Di non ridurre tutto ad una dimensione superficiale e banale. Come in quella storiella raccontata da Chiara Rapaccini, compagna di Mario Monicelli. Lei, rapita, dice a lui: «Posso chiamarti amore?». E lui, pratico: «No. Preferisco Francesco».
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