Sembra facile come bere un bicchier d'acqua, fare un caffè. Quella tazzina creata sotto i nostri occhi in venticinque secondi (sì, questo prevede la «ricetta» dell'espresso italiano) e che beviamo in ancora meno tempo, sgomitando arrampicati su un bancone, ogni mattina.
Ma in quei venticinque secondi si concentra un mondo di storie e competenze. Perché fare un caffè perfetto è tutt'altro che un compito banale. Un po' come fare goal.
I mondiali dei baristi ci sono, la serie A della «tazzulella» incorona ogni anno il miglior barista d'Italia e del mondo. Li organizza SCA, la Specialty Coffee Association, organismo internazionale che punta sulla qualità e la sostenibilità del chicco di Coffea, e le selezioni sono partite in questi giorni. L'obiettivo è la finale nazionale dal 20 al 24 gennaio al Sigep a Rimini, e per il vincitore il mondiale a Busan, in Corea del Sud, nel maggio successivo.
Siamo andati a seguire la prima semifinale, tenutasi all'Accademia del caffè Trucillo a Salerno giovedì 13 settembre. Il primo finalista si chiama Federico Pinna e viene da Treviglio. A lui i nostri migliori auguri.
Viene da pensare che nelle competizioni internazionali i baristi della patria che ha inventato il combo macchina per caffè espresso e miscela svettino. E invece no: all'ultimo mondiale a giugno ad Atene il nostro, come si dice in questi casi, Daniele Ricci è arrivato secondo. Bene, benissimo. Peccato che si tratti del miglior piazzamento di sempre per un italiano.
Ma a che serve un mondiale? E come si diventa un bravo barista, anzi il migliore d'Italia, e del mondo? «Imparare a fare un caffè è come prendere la patente: si deve studiare la teoria e poi c'è la pratica», spiega Maurizio Valli di Bugan Coffee Lab, tra i primi a portare nella sua caffetteria di Bergamo il concetto di caffè d'alta gamma in Italia. Ma anche coach e mentore di tanti giovani che si stanno avvicinando alle gare. Un Bearzot della tazzina, insomma, che non a caso ha appena completato il corso per osservatore calcistico «perché alla fine sono due mondi molto vicini».
Le gare servono proprio a questo: a confrontarsi e crescere: «In gara vedo nuovi metodi di estrazione, acquisisco informazioni che se sto dietro al bancone per vent'anni non avrò mai».
Mentre parla Valli, nel backstage delle selezioni, come a confermare ciò che dice, Daniele e Federico, concentratissimi, fanno dei gesti che ricordano una danza intorno a macinini ed estrattori. Insieme non arrivano ai cinquant'anni. «Vedi Daniele? Quando ha iniziato non sapeva la differenza tra Arabica e Robusta. Oggi che è vicecampione mondale gira tutto il mondo per piantagioni e sperimenta nuovi metodi di processo e di lavorazione. Se fosse rimasto nel piccolo bar dove lavorava non sarebbe mai successo».
Il ruolo del coach? «È soprattutto mentale, occorre farli sentire sereni e tranquilli. La psicologia in gara è fondamentale, abbiamo lavorato tantissimo sulle emozioni, su come si rapportano tra di loro e come si esprimono durante, prima e dopo la gara, è fondamentale arrivare mezz'ora prima, parlare tra concorrenti. Serve all'autostima e a fare sentire più forti».
Già, perché l'«umile» barista è maître di sala e chef allo stesso tempo perché fa entrambe le cose, deve saper spiegare, saper fare, conoscere la materia prima. È una figura complessa che in Australia ad esempio viene pagata e valorizzata più di uno chef stellato. Da noi spesso, purtroppo, il bar è il refugium peccatorum di chi non sa bene che fare nella vita. Ma potrebbe essere molto di più.
Chiediamo a Valli come si accorge se un ragazzo ha delle potenzialità. «Lo capisci dalla fame che ha negli occhi, la voglia e la passione di fare le cose.
Se c'è passione e ci crede, anche nelle difficoltà sono convinto che con il tempo può raggiunge qualsiasi risultato. Poi la voglia di imparare, girare il mondo, crescere è fondamentale. È questa la cosa che un talent scout, un osservatore, del caffè e del calcio, deve saper vedere. Il mio ruolo ormai è questo».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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