"In sintonia con il futuro: in questo era progressista"

Il cardinale Gianfranco Ravasi che lavorò a lungo con Bergoglio: "Attentissimo ai rapporti fra tecnologia e Chiesa"

"In sintonia con il futuro: in questo era progressista"

Monsignor Ravasi, Lei Papa Francesco lo conosceva bene. Cosa prova in queste ore?

«Dolore. Un forte dolore. Ma un po' eravamo preparati, per quanto ciò non sia certo un sollievo. Quando io e gli altri cardinali lo abbiamo visto da vicino, la Domenica delle Palme, apparire in piazza San Pietro dopo la Santa Messa, salutando i fedeli e facendo un piccolo giro, il suo viso ci sembrava quello di un altro».

Gianfranco Ravasi è cardinale e biblista. Di Merate, Lecco, è stato a lungo Prefetto della Biblioteca Ambrosiana a Milano, poi «ministro della Cultura» della Chiesa e oggi è Presidente emerito del Pontificio consiglio della Cultura. Accanto a Papa Francesco ha lavorato a lungo.

Eminenza, quali sono stati gli snodi fondamentali del pontificato di Jorge Mario Bergoglio?

«È difficile comporre in poche parole un ritratto-ricordo di Papa Francesco. L'orizzonte dei suoi messaggi e delle sue azioni è immenso. Con lui la trascendenza della verità e dell'amore si è incarnata nella storia e nella quotidianità. E grande è stato il suo impegno per generare un mondo aperto attraverso un dialogo interculturale e interreligioso. Così come incessante è stato il suo impegno per la pace contro la guerra e lo sforzo di tenere in armonia la pluralità della Chiesa».

Se dovesse scegliere tre momenti?

«L'Evangelii gaudium, la prima esortazione apostolica di Papa Francesco, promulgata nel novembre 2013: lì c'è la centralità dell'annuncio del Vangelo e la dimensione sociale dell'evangelizzazione. Il suo messaggio era basato sul Discorso della Montagna, quindi il sunto stesso del Vangelo. Poi l'enciclica Laudato si' del 2015: il Vangelo della Creazione. Un testo che non è solo ecologico e sulla Natura, ma in cui entra il problema della Scienza con una grande attenzione per tutta la complessità del progresso della tecnica. E infine Fratelli tutti, la sua terza enciclica, del 2020: lì c'è il ritorno al tema degli ultimi che devono essere i primi, l'attenzione per le periferie, per i più deboli, per i meno fortunati».

Un Suo ricordo personale di Papa Francesco?

«Gliene cito due. Conclave del 2013, quando venne eletto. Siamo stati molto vicini in quei giorni. E il 13 marzo, proprio poco prima del quinto scrutinio, quello decisivo, io e lui ci siamo attardati mentre con gli altri cardinali andavamo verso la Sistina. Bergoglio ha cominciato a parlarmi, dicendo che era debitore nei miei confronti e che aveva letto i miei libri su Giobbe e sui Vangeli. E mentre tutti gli altri erano già entrati nella Cappella io e lui siamo rimasti indietro a parlare, finché venne il cerimoniere a sollecitarci. Tempo dopo, quando era Papa, Francesco mi disse che lui considerava quel ritardo - che ben ricordava - una sorta di pulsione interiore che lo tratteneva dal destino che lo attendeva... E poi c'è Borges...».

Jorge Luis Borges, argentino come Bergoglio.

«Sì. Ed è una cosa che in qualche modo ha a che fare con quel dialogo interculturale per il quale si è sempre speso. Comunque, Bergoglio ha avuto un forte legame con Borges. Mi raccontò un episodio accaduto negli anni Sessanta, quando lui, a 28 anni, era professore di Letteratura a Santa Fe, nel Colegio de la Inmaculada Concepción, una antica scuola di gesuiti. Bergoglio insegnava ai suoi ragazzi anche scrittura creativa. Così una volta, nel '65, invitò Borges a tenere alcune lezioni su come si scrive un racconto. Fece venire lo scrittore in pullman da Buenos Aires, un viaggio di parecchie ore già allora. Insomma, Borges, alla fine di quegli incontri, invitò gli studenti a scrivere un loro racconto, e quando Bergoglio glieli spedì, sicuro che la cosa sarebbe finita lì, Borges rispose che li aveva letti ed era pronto a scrivere una prefazione nel caso fossero stati pubblicati in volume... Un gesto di grande generosità. Cito questo episodio perché con Papa Francesco mi è capitato spesso di parlare di Borges. Io conobbi bene la vedova, María Kodama, morta nel 2023. Lui considerava la letteratura e la creatività cose molto importanti nella formazione delle persone, come dimostra la sua famosa Lettera agli artisti, quella in cui dice che Il mondo nel quale viviamo ha bisogno di Bellezza per non sprofondare nella disperazione».

Bergoglio fu davvero il Papa della gente o è una formula retorica?

«Certo che lo è stato, eccome. Nell'Evangelii gaudium è centrale l'ascolto del popolo. Papa Francesco, in linea con la teologia del popolo sviluppatasi in America Latina, enfatizza l'importanza del popolo, le sue pratiche religiose e i suoi valori culturali, così come la centralità della pietà popolare. Francesco è stato influenzato da questa prospettiva, che ha rielaborato sottolineando l'importanza di ascoltare le voci della gente, di riconoscerne le aspirazioni e le difficoltà. E poi lo abbiamo visto domenica quanto era importante per lui il popolo dei fedeli: nonostante le sue condizioni fisiche ha voluto fare il giro sulla Papamobile».

Non ha mai avuto paura di rivolgersi verso chi sta in basso.

«Di certo è stato amato più dalla gente comune che dalla maggior parte dei teologi e degli intellettuali...».

Ammesso che categorie come «conservatore» e «progressista» abbiano un senso dentro la Chiesa, Papa Francesco a quale appartiene?

«Se proprio dobbiamo adottare questi termini, che sono molto limitativi, direi che nel momento in cui penso al suo discorso su Maria e all'attenzione per la devozione popolare, sarei tentato di collocarlo nella categoria dei conservatori. Ma in realtà Francesco ha sempre guardato al futuro, ha saputo individuare i percorsi più progressisti.

Vedeva questo muoversi del mondo verso orizzonti che andavo inseguiti per far sì che la tecnologia, la biologia, il digitale, l'intelligenza artificiale non andassero in senso opposto alla Chiesa. Sì, se progressista significa essere in sintonia con il futuro, Papa Francesco lo era».

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