Lo smilzo, il tarchiato, l'amico. Totopremier nel centrodestra

Ecco come l'esito elettorale potrebbe disegnare l'identikit di un presidente del Consiglio di un esecutivo moderato

Lo smilzo, il tarchiato, l'amico. Totopremier nel centrodestra

Il momento per il Pd è delicato e la tragedia di Macerata, con tutte le implicazioni sul delicato tema dell'immigrazione, ci ha messo il carico da novanta. «Un disastro!», sospira Roberto Giachetti, renziano doc: «Speriamo di tenere al Sud. In Sicilia è difficile, ma almeno in Puglia e in Calabria! Capisco Berlusconi che non può star con le mani in mano sul tema dell'immigrazione, per non lasciare tutto lo spazio a Salvini, ma ci penalizza. E, comunque, per il Pd è un problema di prospettiva, anche perché non vedo altri se non Renzi: parlano di sostituirlo con Veltroni in caso di sconfitta, ma Renzi almeno il 15% di quel partito se lo porta dove vuole. Il suo errore? Aver rotto con il Cav per eleggere Mattarella, che poi non lo ha neppure aiutato ad avere le elezioni quando avrebbe voluto».

Altro renziano, Alberto Losacco, altre preoccupazioni. Pugliese, paracadutato in Piemonte perché Emiliano ha voluto per sé tutte le liste della sua regione, fa previsioni buie. «Di collegi uninominali al Sud - si lamenta - rischiamo di prenderne uno solo a Salerno. In Puglia penso che il centrodestra faccia asso pigliatutto, grazie alla follia di Emiliano: ha candidato baresi a Lecce, leccesi a Foggia e foggiani a Bari. Se poi la risposta ai problemi dell'immigrazione sono gli appelli alla mobilitazione anti-fascista di Delrio, stiamo freschi!». E in un Transatlantico semideserto, anche una vecchia volpe democristiana come Angelo Sanza, salito sul carro di Renzi, non annusa una buona aria. «Un gran casino!» dice «siamo partiti con tre poli: un terzo, un terzo, un terzo, di cui due poi si sarebbero dovuti alleare. Ma ora il polo intorno al Pd non lo vedo più. E mi accorgo che il Cavaliere comincia a giocare la sua partita da solo, in questa confusione pensa ad accumulare voti e non aiuta nessuno».

Già, la situazione si è fatta complicata e tutto si gioca su quanto porterà a casa il Pd: in un sistema di tre poli, il risultato di uno, finisce per condizionare anche il risultato e la politica degli altri due. E l'irruzione del tema immigrazione ha creato non pochi problemi ad un Pd, che ne aveva abbastanza di suoi. Il più consapevole del rischio è proprio Renzi. Sa bene che sull'argomento, il Pd può mettere in campo ben poco: può chiedere di rivedere il trattato di Dublino, ma è una decisione che dipende dalla Ue; il segretario aveva lanciato mesi fa anche l'idea più convincente delle «quote» di accoglienza, ma anche un simile strumento si è fatto largo a fatica nel partito. Per cui l'unica strada è parlare il meno possibile della questione, specie se si intreccia con un caso, come quello della ragazza di Macerata, che colpisce sul piano emotivo l'opinione pubblica. «L'unico modo - ha spiegato Renzi ai suoi - è cambiare discorso, altrimenti ci spazzano via. È un argomento che interviene sul consenso in modo devastante. È un problema che si deve porre pure Berlusconi, perché se noi andiamo giù, al Sud vincono i cinque stelle. È lui che, continuando a parlare dell'immigrazione come di una bomba sociale, rischia di ammazzarci, tirando su Salvini al Nord e Grillo al Sud».

Appunto, la teoria dei vasi comunicanti: se il Pd va giù, potrebbero approfittarne i grillini. È un rischio di cui il Cav è più che consapevole. «Al Sud - ha spiegato ai suoi - ci sono cinquanta collegi uninominali che ballano. Se Renzi va troppo giù, in buona parte potrebbero finire in mani grilline». Solo che Berlusconi ha tante partite in corso e se Salvini spara sul tema dell'immigrazione, non può lasciargli il campo aperto. Al massimo può utilizzare un altro linguaggio, per usare un eufemismo, meno irruento. La sua bussola è presidiare il centro della geografia politica, in modo da essere il perno di ogni possibile maggioranza di governo dopo il 4 marzo. Per cui da una parte è preoccupato dal risultato di Renzi. Anche se il centrodestra riuscisse ad assicurarsi la maggioranza dei seggi, un Pd che non scendesse sotto un certo livello gli offrirebbe un ipotetico secondo forno per rendere Salvini più mansueto nelle trattative di governo; o in alternativa, se la coalizione non centrasse la maggioranza in Parlamento, potrebbe offrirgli un'altra politica. Contemporaneamente, però, l'unico modo per supplire ad una défaillance di vaste proporzioni del Pd è fare il pieno di voti con Forza Italia. Su questo non ci sono dubbi. E il personaggio, abituato a contare sul suo, predilige questa seconda strada. Il resto si vedrà a urne chiuse. «La verità - spiega il responsabile dell'organizzazione di Forza Italia, Gregorio Fontana, che ha sempre l'occhio sulla mappa dei collegi - è che la situazione si è capovolta rispetto d otto mesi fa. All'epoca era il Pd l'asse del governo, a cui si potevano aggiungere 100 deputati di Forza Italia. Ora è l'esatto contrario. È difficile che si possa prescindere dal centrodestra. Se la coalizione non avrà i 280 seggi alla Camera, allora vedremo se sarà possibile coinvolgere la parte più razionale del Pd; o un numero congruo di parlamentari 5stelle, abbiamo già l'elenco di quelli che potrebbero dare una mano per evitare un ritorno al voto». L'obiettivo prioritario è preservare un equilibrio politico che si basi sulla centralità di Forza Italia e dei moderati del centrodestra. Anche nel rapporto con la Lega. «Le prospettive sono tre - osserva Rocco Buttiglione, che non siederà più dopo 24 anni in Parlamento, ma ha ottimi agganci con la Merkel -: o Salvini si tranquillizza; o Bossi, Maroni e Zaia fanno un colpo di stato interno, prendono il controllo della Lega e fanno tornare in auge quella di governo; o c'è una scissione nel Carroccio e una parte della Lega fa il governo insieme a Forza Italia e al Pd».

L'importante, comunque, è che sia il Cav a dare le carte. Ecco perché la storiella di una conferma di Gentiloni è già tramontata, mentre dentro Forza Italia all'ipotesi di scuola di «Berlusconi premier», si affiancano gli identikit di altri personaggi che potrebbero diventare, con la benedizione del capo, gli inquilini di Palazzo Chigi: si parla di un signore alto e smilzo se si guarderà alla compattezza della coalizione; di un altro più tarchiato e basso se si starà più attenti all'Europa; e, naturalmente, dell'uomo di fiducia di sempre, che piace tanto, ma proprio tanto, anche lassù sul Colle.

Sono tutte ipotesi, però, che possono marciare solo sui voti. E in questa grande confusione, le previsioni sono difficili visto che ognuno ha i suoi guai. Ad esempio, metà dei dirigenti grillini e della base è in rivolta sui territori: chi aveva pensato di prendere un autobus per andare in Parlamento, sperando che fosse più facile che trovare lavoro, adesso che è rimasto a terra, non si rassegna, e fa campagna contro il movimento. Né la situazione è migliore nell'altra anima della sinistra, quella di Liberi e Uguali. Lì, si sono accorti che il candidato premier, Grasso, si è trasformato in un handicap. «Ogni volta che va in tv - si lamenta con i suoi intimi Pippo Civati - perdiamo lo 0,3%». Mentre Elisa Simoni, una scissionista che ha una parentela con Renzi, scommette: «Non vedrete più Grasso in Tv». Pier Luigi Bersani, che ha inventato il candidato Grasso, preferisce, invece, sorvolare. Semmai si sofferma sullo stato confusionale del Paese. «Chi va al Sud - racconta - si accorge che le disuguaglianze hanno imposto un altro linguaggio. Se parli di crescita, visto che non la vedono, mettono mano alla pistola. Per questo o dopo il voto si fa una maggioranza vera, o è meglio tornare alle urne. Lo dice uno che nel 2012 fu costretto, dalla situazione, ad accettare il governo Monti per evitare le elezioni anticipate.

Con il senno di poi, sappiamo ora che il governo Monti fu il catalizzatore per la crescita dei 5stelle». Un altro, e sicuramente, non l'ultimo, che ha gettato la dottrina «del non voto a tutti i costi» di Giorgio Napolitano, alle ortiche.

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