Da un lato lei, Elly, in vistoso completo color pavone, che solca il Transatlantico di Montecitorio scortata solo dal fido addetto stampa, sorridendo a tutti e dando confidenza a nessuno.
È soddisfatta, ha appena fatto acclamare i nuovi capigruppo parlamentari del Pd da lei scelti: Chiara Braga alla Camera al posto di Debora Serracchiani; Francesco Boccia al Senato al posto di Simona Malpezzi. Nessuna conta, nessun voto contrario, pochissime critiche esplicite.
Dall'altro loro, gli ex dirigenti dem (variamente chiamati con dispregiativi assortiti: capibastone, cacicchi, capicorrente etc), che vagano e confabulano con sorrisi tirati e aria rassegnata. «Siamo vecchi, lei è nuova: ci farà fuori tutti, uno per uno. Come i dieci piccoli indiani», dice una dirigente di lunga esperienza. Ex ministri, ex segretari, ex governatori, ex capigruppo: tutti i volti noti delle passate stagioni devono ora fare, volenti o nolenti, un passo indietro e mettersi nell'ombra, senza incarichi e persino con un cortese invito a «concordare» le presenze tv con lei, che di qui alle elezioni europee vuol decidere da che volti far rappresentare il «suo» Pd. Un incruento repulisti che inizia proprio da coloro che la hanno sostenuta al congresso: da Andrea Orlando a Nicola Zingaretti, da Peppe Provenzano a Roberto Speranza. L'unico che, col consueto naso, lo ha capito da subito e si è sfilato da solo è il primo sponsor di Schlein, Dario Franceschini, che si è limitato a raccomandare il nome della neo-capogruppo Braga.
Poi, naturalmente, ogni regola che si rispetti ha le sue eccezioni, e l'eccezione più vistosa è rappresentata dal neo presidente dei senatori Pd Boccia: non proprio un volto nuovo o un dirigente di primo pelo. Fece parte di quelle nuove leve tecnocratiche arruolate da Enrico Letta (di cui era consigliere al ministero dell'Industria nel '99) nella stagione del prodismo, quando rivendicava con giusto orgoglio l'esperienza di bocconiano e poi ricercatore alla London School of economics. Capo-dipartimento nel governo Prodi del 2006, parlamentare dal 2008, presidente di commissione, fiero sostenitore del governo Monti nel 2011, fiero sostenitore (e ministro) del governo Conte nel 2019, in segreteria sia con Zingaretti che con Letta, stretto alleato di Michele Emiliano e accanito sponsor del matrimonio coi 5S e della virata a sinistra. Culminata nell'appoggio a Schlein, di cui è stato braccio destro organizzativo nel congresso, portandole in dote voti nel Sud. «Alla Camera la vera capogruppo sarà Elly, al Senato ha premiato Boccia perché non è un capocorrente, se non della corrente Boccia, e ha il know-how di partito che a lei manca», spiegano nel Pd.
La nuova segretaria si muove con abilità tattica e una certa soave spietatezza. Del resto Pippo Civati, il suo primo capocorrente, in questi giorni confida a chi lo interroga: «Attenti, Elly è molto furba e sa sempre essere al posto giusto nel momento giusto». Di qui alle Europee i malumori interni difficilmente esploderanno. Ieri in pochi hanno rivolto alla nuova gestione critiche esplicite: Gianni Cuperlo le ha ricordato che «un partito è cosa assai diversa da un movimento», e ha delle regole che vanno rispettate. Bruno Tabacci ha sottolineato che «nessun segretario, nella Prima Repubblica, si sarebbe permesso di indicare i capigruppo».
Anche l'ex ministro Lorenzo Guerini ha denunciato «forzature» rispetto alla «autonomia dei gruppi». E ha ammonito Schlein: «Serve una proposta politica al paese», e non bastano le «battaglie identitarie rivolte a segmenti della società».
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