C'è da sperare che abbia ragione il ministro Pier Carlo Padoan, che da giorni ripete come un mantra che l'Italia non si farà male in caso di Grexit. E con lui, anche il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco: «In questi cinque anni abbiamo messo in atto importanti difese contro le turbolenze: siamo in grado di far fronte ad esse». Standard&Poor's non la pensa così. Al contrario, il contraccolpo di un'uscita di Atene dall'euro sarebbe particolarmente doloroso, perché patiremmo più di tutti il danno sotto forma di una lievitazione dei costi del debito. A conti fatti, uno “scherzetto“ da 11 miliardi. Così tanti soldi da mettere a repentaglio l'aggiustamento dei conti pubblici.
L'assunto da cui parte l'agenzia di rating è semplice: «Il principale effetto di una Grexit sul resto dell'Eurozona, in particolare la periferia, avverrebbe attraverso i mercati dei capitali», con un aumento degli oneri di finanziamento pari a 30 miliardi. Il motivo è presto detto. Finora, la moneta unica è sempre stata vista come un punto di attrazione per altri Paesi del Vecchio continente. Il club, infatti, ha finora fatto la tessera ad altri soci senza mai accompagnarne nessuno alla porta. Dal momento in cui tutto ciò non è più vero, ecco scattare le contromisure dei mercati sotto forma di un premio sul rischio di valuta. Che per i Paesi come l'Italia, più fragili sotto il profilo finanziario, diventa particolarmente oneroso. Anche in presenza, precisa S&P, dello scudo offerto dalla Bce attraverso l'acquisto di bond sovrani.
Naturalmente, i Signori del rating non sono infallibili, come dimostrano gli abbagli giganteschi presi ai tempi della crisi argentina e con il crac di Lehman Brothers. Visti i precedenti, gli esperti di S&P potrebbero aver sbagliato i conti con l'Italia. D'altra parte, calcolare con una qualche precisione la reazione dei mercati su un evento senza precedenti rischia di essere solo un esercizio accademico. Più puntuale dovrebbe invece essere il conto che il Fondo monetario presenta alla Grecia. Nulla a che vedere con la rata da 1,6 miliardi scaduta il 30 giugno scorso che, se non saldata entro la fine di luglio, porterà dritta Atene alla bancarotta sovrana. Questa volta gli uomini di Christine Lagarde stimano di quanto denari la Grecia avrà bisogno in futuro. Tanti soldi: ulteriori 50 miliardi di euro, di cui 36 sborsati dai partner europei, in finanziamenti agevolati fino al 2018 per garantire la sostenibilità del suo debito pubblico. Debito che va ristrutturato, come l'Fmi ha sostenuto in tutti questi mesi andando a sbattere contro il muro alzato dall'Europa, soprattutto se la Grecia crescerà più lentamente del previsto e se le riforme non saranno attuate. Proprio la lentezza con cui lo scorso anno è stato affrontato il processo di rinnovamento del Paese ha determinato un aggravio del debito, che doveva scendere al 128% del Pil, mentre ora è tornato a correre e potrebbe toccare il 150% entro il 2020. Tra l'altro, questi calcoli sono stati fatti prima redatto poco prima del fallito accordo di sabato scorso e prima del mancato rimborso. «Questi ultimi sviluppi - sottolinea l'organismo di Washington - avranno certamente un ulteriore impatto economico e finanziario significativamente negativo».
Quello del Fondo è, naturalmente, un modo di fare pressione a due giorni dal referendum. Cosa fatta, d'altra parte, anche da istituzioni europee e governi con un atto di ingerenza nella politica interna di un Paese sovrano mai vista.
Così, mentre il ministro Yanis Varoufakis annuncia che in caso di vittoria del sì «abbandonerà il governo», il presidente dell'Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem dice che l'ottimismo di Tsipras in caso di vittoria del no è totalmente fuori luogo e che implicherebbe maggiori difficoltà per un accordo e una terapia economica ancora più «difficile» per i greci.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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