Adesso chiamatelo «Little Mountain», perché da ieri Kyrie Andrew Irving - 26enne playmaker dei Boston Celtics, uno dei giocatori di basket più famosi dell'Nba - è a tutti gli effetti un Sioux Lakota della tribù di Standing Rock, nel North Dakota. Lui e sua sorella maggiore Asia (ribattezzata «Buffalo Woman») ne sono diventati membri al termine di una cerimonia rituale che si è svolta a Cannon Ball davanti a un migliaio di persone, ma in realtà nelle loro vene già scorreva sangue indiano: i bisnonni e i nonni materni facevano parte della tribù di White Mountain, mentre la mamma Elizabeth Ann Larson (morta prematuramente a 29 anni) fu adottata subito dopo la nascita da un pastore protestante e da sua moglie.
Di questa eredità genetica Kyrie è sempre stato consapevole e l'ha onorata, prendendo pubblicamente posizione a favore dei Sioux quando un paio d'anni fa partì il progetto del «Dakota Access Pipeline». Si tratta di un oleodotto voluto dall'amministrazione Trump e che passa all'interno della loro riserva: gli ottomila indiani che ci abitano si sono battuti con tutte le forze per impedirne la costruzione, temendo che l'eventuale inquinamento del lago Oahe avrebbe rovinato per sempre il loro territorio. Una battaglia persa, alla fine, ma combattuta con fierezza anche dal campione di basket. «Non è da oggi che Kyrie ci ha reso tutti orgogliosi - ha riconosciuto il capo tribù Mike Faith -, sapere che non ha mai dimenticato le sue radici tanto da trovare il tempo di visitare la sua gente prima dell'inizio della stagione Nba dimostra che tipo di persona sia e l'orgoglio che prova per le sue origini».
Nato in Australia e cresciuto nel New Yersey (ha la doppia cittadinanza), Irving aveva rivendicato il suo legame con i Sioux anche in altri modi simbolici: sulla parte posteriore del collo, tra le spalle, si è fatto tatuare la stella a otto punti che è il simbolo della tribù di Standing Rock, che ora ha trovato spazio anche su uno dei modelli più recenti delle sue scarpe da gioco: le Nike «Kyrie 4 N7», uscite a giugno, lo esibiscono sia sul retro che all'interno.
Lo sterminio dei nativi americani (che oggi sono poco più di 5 milioni) è una ferita ancora aperta negli Usa.
E lo sport professionistico spesso ci ha buttato sopra del sale appropriandosi del loro patrimonio culturale per coniare denominazioni di squadre, loghi e mascotte spesso con connotati ambigui, ridicolizzanti o spregiativi. Stavolta no, stavolta gli indiani hanno un testimonial sportivo vero: uno in cui possono finalmente riconoscersi.
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