Lo strano ticket Medinsky-Abramovich: il pugno di ferro e la carezza del denaro

Accanto all'ideologo del putinismo che sta riscrivendo la storia russa come mediatore spunta il miliardario che fa affari con l'Occidente

Lo strano ticket Medinsky-Abramovich: il pugno di ferro e la carezza del denaro

L'oligarca e l'ideologo. Non si sarebbero potute immaginare due figure più diverse come simbolo dei colloqui di pace tra Russia e Ucraina. Il primo, Roman Abramovich, miliardario dalla triplice nazionalità: russa, israeliana e portoghese (dopo la singolare scoperta di antenati ebrei sefarditi fuggiti dal paese iberico nel XV secolo). Il secondo Vladimir Medinsky, ex ministro della cultura russo, falco tra i falchi del Cremlino, la cui nomina, a una prima lettura, è apparsa garanzia di sicuro fallimento del negoziato.

Eppure le due figure rendono bene l'idea delle forze in campo. Da una parte il pragmatismo di chi è abituato a cercare compromessi come Abramovich, uomo d'affari affezionato al sempre valido principio per cui dove passano le merci non passano i soldati. Dall'altra la rigidità dell'ideologia e delle riletture a senso unico della storia, caratteristiche di cui Medinskij ha dato ampia prova nella sua attività pubblica.

A complicare appena le cose è il fatto, rivelato dal Jerusalem Post, che Abramovich sia accorso in Bielorussia su richiesta dell'Ucraina e grazie alla mediazione di un produttore cinematografico due volte candidato all'Oscar, nato a Kiev ed in contatto con il presidente ucraino Zelensky.

Comunque sia, se Abramovich rappresenta la preoccupazione, o forse il panico, dei miliardari russi che corrono il rischio di veder andare in fumo la ricchezza accumulata in una vita, Medinsky bene interpreta l'altra faccia del potere moscovita, quella oggi prevalente. Almeno a giudicare dal tono e dalla parole degli ultimi discorsi di Vladimir Putin. E non solo dai discorsi, a dire la verità. Dall'anno scorso Medinskij è a capo di una commissione voluta e creata con un ukase del Cremlino che esprime il suo obiettivo in forme un po' involute: «assicurare un approccio sistematico alle questioni di difesa dell'interesse nazionale legate alla preservazione della memoria storica». In pratica Medinsky è stato incaricato di riscrivere la storia tenendo conto dell'interesse nazionale. E per dargli una mano, nella commissione sono stati nominati anche i vertici dei servizi di sicurezza. Giusto ai tempi del potere bolscevico si era visto qualche cosa del genere, ha commentato un osservatore.

Medinsky, comunque, si era già messo al lavoro. Nel 2020 aveva pubblicato in Russia e in giro per il mondo (in Italia per Sandro Teti Editore) un volume interessante per chi voglia capire come la si pensa tra le mura del Cremlino: «Miti e contromiti: l'Urss nella seconda guerra mondiale». E di miti il libro ne abbatte parecchi. La guerra russo-finlandese, per esempio. Da noi si pensava che fosse Stalin ad aver attaccato. Il che, fattualmente, nemmeno Medinsky nega. E però c'è un però: «Se il confine di uno Stato che ha reazioni ostili con voi passa a meno di 32 chilometri di distanza dalla città più importante del Paese per potenziale industriale (Leningrado), chiunque cercherebbe di allontanare la frontiera. Tanto più che la Finlandia disponeva di un esercito preparato».

E qui emergono i due errori per cui i finlandesi sono stati puniti. Il primo: vivere troppo vicino alla vecchia Leningrado. Il secondo: non rassegnarsi a rimanere disarmati in balia del potente e volubile vicino.

La stessa cosa si può dire, secondo Medinsky dei Paesi baltici, Estonia, Lettonia e Lituania. Anche qui la vulgata è che nel 1939 siano stati annessi da Stalin.

Ma perché, secondo Medinskij? «Proviamo a metterci nei panni dei dirigenti sovietici del 1939- scrive- Sta cominciando una guerra, grande e spaventosa, il Paese non è pronto ad affrontarla. La logica dell'Unione Sovietica nel 1939 non è quella di un presunto impero del male ma quella di un Paese in pericolo». La stessa che si vuole applicare oggi in Ucraina.

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