La settimana scorsa abbiamo assistito alla prima visione di un nuovo film: l'Onu cambiata. La sua crisi porta molte cicatrici, ma l'Assemblea Generale ce ne ha offerto un saggio notevole. Spesso gli interventi di Benjamin Netanyahu e di Mahmud Abbas, detto Abu Mazen, sono una ripetizione di un film di duellanti, un po' stufi di ripetere sempre le stesse cose, Netanyahu logico e diretto, negli anni passati impegnato a descrivere il pericolo iraniano senza ma anche a chiedere ai palestinesi di discutere razionalmente, mentre l'assemblea disapprova il suo inglese perfetto; Abu Mazen furioso e pallido, in arabo, spavaldo nonostante il terrorismo dei suoi, certo invece di raccogliere gli applausi dell'ente che ha fornito ai palestinesi tutto l'ossigeno, il denaro, la legittimazione per cercare di distruggere Israele anche con mezzi diplomatici.
Stavolta non è andata così. I tempi stanno cambiando e il vincitore è Benjamin Netanyahu. Ha avuto persino qualche applauso a scena aperta, mentre la delegazione del Kuwait restava ad ascoltare per la prima volta! Abu Mazen invece ha usato la solita invettiva, con poco successo: ha ridetto «pulizia etnica, attacco a Al Aqsa, segregazione razziale» e quanto alle centinaia di attacchi terroristici che lui in privato chiama «valorosi atti dei nostri martiri» e indica come esempio, ha accusato Israele di difendersi con «esecuzioni extragiudiziarie, punizioni collettive». Ma non ha funzionato: il mondo offre troppo per il terrorismo e i Paesi sunniti temono lo schieramento sciita guidato dall'Iran e dagli hezbollah sostenuti dalla Russia per dare troppa importanza al conflitto israelo palestinese. Netanyahu ha toccato tutti i punti sensibili: ha accusato l'Onu di essere divenuto dopo essere stato una «forza morale, una farsa morale»: in quest'ultimo anno Israele ha ricevuto 20 risoluzioni di condanna, mentre nessun'altro stato, neppure chi impicca gli omosessuali o getta gas sui nemici, ne ha ricevuto più di tre.
L'Onu è una buffonata, dice Netanyahu, ma la politica estera di Israele, semplicemente realistica e diretta, ha conquistato gran parte del mondo, e al contrario delle condanne pubbliche dell'Onu e di quelle private di Obama sulla questione degli insediamenti, potrebbe finalmente portare a un vero «processo di pace». Bibi l'ha spiegato: Israele ha oggi rapporti diplomatici con 160 Paesi, compresi arabi e africani; i grandi Paesi che temevano l'ira araba come l'India, la Cina, il Giappone, la Russia, oggi sono tutti in dialogo politico e economico col piccolo Paese, che di suo è aumentato da 800mila abitanti dell'inizio a 8 milioni e la sua economia dall'esportazione delle arance è passata a quella della migliore fra le alte tecnologie, con grande vantaggio. Che sa riciclare l'acqua, e colpire i cyberterroristi L'Egitto, la Giordania che ha appena siglato un contratto di acquisto del gas israeliano, l'Arabia Saudita, gli Emirati, i Paesi del Golfo hanno un nuovo rapporto con Israele, ma sono anche uniti nello sperare, secondo un piano orchestrato di recente, una sostituzione del capo dell'Autonomia Palestinese con un altro leader che finalmente sia disponibile a costruire una strada di calma, pace, sviluppo.
Insomma, tutta la politica internazionale di Obama e dell'Ue, che ha promosso un rapporto con l'Iran, che ha creduto addirittura (errore prima di tutto degli americani) di poter costruire una strada di amicizia con i sunniti basandosi sui Fratelli Musulmani, che ora ripete che il problema è tutto nei
«territori occupati», non funziona. Col disfarsi del blocco compatto antisraeliano tante politiche cambieranno anche per l'Onu. Non sarà facile, ma forse dopo anche i palestinesi potranno finalmente avere un futuro migliore.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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