
La condanna del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove riaccende lo scontro. Tra governo e toghe, ma anche tra maggioranza e opposizione.
Se la premier Giorgia Meloni aveva subito difeso Delmastro, dicendosi «sconcertata» dalla sentenza e assicurando che il sottosegretario «resta al suo posto», e se a ruota il Guardasigilli Carlo Nordio, «disorientato e addolorato» aveva detto di confidare «in una radicale riforma» della sentenza «in sede di impugnazione», non hanno tardato ad arrivare le bordate in direzione contraria. Tra le prime, proprio quelle dell'Associazione nazionale magistrati, il cui neopresidente, Cesare Parodi, aveva già escluso giovedì che dietro quella decisione del tribunale di Roma ci fosse una «logica politica», spingendosi poi a utilizzare la condanna decisa dai giudici capitolini, ribaltando la richiesta della procura (per i pm Rosaria Affinito e Paolo Ielo bisognava archiviare, in mancanza dell'elemento soggettivo del reato), quasi come fosse una prova dell'inutilità della separazione delle carriere. Il tutto mentre l'opposizione, da Conte a Schlein, reclamava lesta le dimissioni.
La bagarre non è finita, e ieri l'Anm è tornata a ringhiare contro il governo, con il sindacato delle toghe che ribalta e rispedisce ai mittenti gli stessi aggettivi scelti a caldo da premier e ministro: «Siamo sconcertati nel constatare che ancora una volta il potere esecutivo attacca un giudice per delegittimare una sentenza. Siamo disorientati nel constatare che il ministro della Giustizia auspica la riforma di una sentenza di cui non esiste altro che il dispositivo». Insomma, per l'Anm quelle arrivate da Meloni e Nordio «sono dichiarazioni gravi, non consone alle funzioni esercitate, in aperta violazione del principio di separazione dei poteri, che minano la fiducia nelle istituzioni democratiche». Ribadendo, infine, come una «morale secondaria» della condanna sarebbe la prova della «inutilità della separazione delle carriere».
Ma proprio quest'ultimo riferimento, come pure quello già fatto giovedì da Parodi (che appena pochi giorni fa a Torino era finito sulla graticola per aver detto che per alzare l'indice di gradimento della categoria servirebbero «due magistrati morti»), innesca la replica piccata del vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani. Con il segretario azzurro che, ricevuto il plauso dell'ex premier spagnolo José Maria Aznar in vista del congresso del Ppe («sono certo che Forza Italia è in ottime mani con la sua leadership»), taglia corto: «Non vedo un grande fondamento giuridico nella sentenza che ha condannato il sottosegretario Delmastro», osserva Tajani, «mi sembra più una scelta politica finalizzata a dare un colpo alla riforma della giustizia». «Andremo avanti perché va nell'interesse dei cittadini e della stessa magistratura», conclude il titolare della Farnesina, che su Delmastro chiarisce: «Io sono un garantista, finché non c'è una sentenza di terzo grado c'è la presunzione di innocenza. Per me può rimanere al suo posto».
Ma la vicenda fa gola alle opposizioni, tanto che spinge Pd e M5s a dimenticarsi persino delle freschissime divisioni seguite all'attacco di Trump a Zelensky che aveva ringalluzzito
«Giuseppi». Così ieri alla Camera, mentre si discuteva del Ddl intercettazioni, i deputati dei due partiti si sono ritrovati, insieme, a rimarcare l'assenza di rappresentanti di via Arenula e a chiedere le dimissioni di Delmastro.
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