La flat tax ipotizzata da Trump per le imprese al 15% contro l'attuale 35%, analogamente alla proposta della May che vorrebbe ridurre la tassazione su quelle inglesi dal 20% al 15%, non rappresenta una misura a favore degli imprenditori ma di tutti i cittadini di quei Paesi. Questo per intuibili motivi: occupazione, crescita e, in fin dei conti, in prospettiva anche incremento delle entrate. Si tratta di provvedimenti certamente non facili da attuare, ma realizzabili. In Italia servirebbero misure analoghe, che non si adottano, più che per l'alto debito pubblico, sulla base di un preconcetto purtroppo diffuso. L'impresa non è vista come la fonte principale di sviluppo economico ma come una sorta di «mucca da mungere»,come recita l'aforisma di Churchill. Eppure anche alla sinistra più conservatrice dovrebbe apparire chiaro che un'imposizione fiscale così alta come quella italiana scoraggia gli investitori esteri e rende assai difficile per i nostri imprenditori competere nel mercato globale: le aziende americane hanno investito 62 miliardi in Spagna contro i 28 nel nostro Paese. Tassare troppo, peraltro, va anche a svantaggio dell'erario. La legge di Laffer è chiara: se esageri deprimi l'economia e ottieni minor gettito. Il prelievo eccessivo non è un problema delle sole imprese, siamo tutti tartassati. Il tema è ineludibile e non si tratta di spostare l'imposizione dalle imposte dirette alle indirette o piuttosto dal lavoro ai consumi o al patrimonio. È necessario ridurle e basta. Secondo un recente report dell'Ocse negli anni '60 le tasse che gli italiani pagavano rappresentavano il 24% del Pil, una soglia assolutamente accettabile in un Paese allora in grande crescita. Oggi ci siamo attestati attorno al 43%. Questo significa che le spese dello Stato sono enormemente cresciute in questo periodo. Peggio: nemmeno l'incremento del prelievo fiscale è bastato a farvi fronte visto che anche il debito pubblico è aumentato in modo consistente. Non nascondiamoci dietro a un dito, l'incremento delle tasse non è una peculiarità solo italiana, ma se confrontiamo i dati Eurostat 2000-2015 rileviamo che mentre in Italia la pressione fiscale cresceva di 3,3 punti, in Germania scendeva e in Spagna e in Olanda è rimasta sostanzialmente inalterata. Di più, se approfondiamo il raffronto con gli anni '60 scopriamo amaramente che la pressione fiscale negli Stati Uniti è passata dal 23,5% al 26,4% odierno e in Regno Unito dal 29,3% al 32,5%, mentre nel nostro Paese è quasi raddoppiata. Torniamo alle imprese: l'insieme totale di tasse, imposte e contributi versati dalle aziende italiane è addirittura il 62% dei profitti, una percentuale enorme e un vero deterrente ad investire ed assumere. Per ridurre l'elevata disoccupazione, soprattutto giovanile, dovremmo invece scommettere sulle nostre aziende e promuoverle, nell'interesse di tutti. E non si dica che l'Ires è stata ridotta perché questo timido aggiustamento è di gran lunga surclassato dalla quantità enorme di imposizione che direttamente o indirettamente continua a crescere. Dalle tasse sul lusso, che hanno ridotto in ginocchio la nautica, alle accise, allo split payment, al ritardato pagamento dei debiti della pubblica amministrazione alle imprese. Lo Stato paga quando vuole e il grande ritardo determina per i fornitori costi impropri che rappresentano una vera e propria tassa. Attualmente gli importi dovuti alle imprese sono ancora pari a 61 miliardi e vengono pagati mediamente dopo oltre 130 giorni. Anticipare questi denari presso gli istituti di credito, per far fronte ai costi delle forniture, rappresenta un onere di 5 miliardi l'anno, una vera enormità che contribuisce a renderci meno competitivi rispetto alle altre imprese europee. Abbassare l'imposizione fiscale però è possibile solamente se si riducono il perimetro di attività dello Stato e gli enormi sprechi che si annidano ancora in parte della spesa pubblica. È possibile? Noi crediamo di sì.
Un esempio: secondo uno studio di Confcommercio dello scorso anno se la spesa pubblica pro capite delle nostre regioni fosse pari a quella della Lombardia, risparmieremmo 74 miliardi di euro. Si dirà che la Lombardia è troppo grande e virtuosa. Forse, ma non è inarrivabile.di Massimo Blasoni,
presidente del centro studi ImpresaLavoro
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