Un teschio riemerge dal lago nel luogo delle stragi rosse

I sub dei carabinieri recuperano resti umani nei fondali dove i partigiani occultavano i cadaveri

Un teschio riemerge dal lago nel luogo delle stragi rosse

Una squadra di sommozzatori dei carabinieri ripesca dal lago di Como resti umani, e a torna galla una pagina di sangue e orrore che si riteneva sepolta nella «foiba acquatica» del Lario. I sub dell'Arma, venerdì, hanno infatti riportato in superficie il frammento di un teschio umano e un osso femorale, insieme ad alcune armi bianche (coltelli, accette, baionette), nello specchio d'acqua antistante il Pizzo di Cernobbio, località tristemente famosa per essere stata la tomba di decine di vittime della mattanza seguita ai fatti di Dongo del 1945. In quel luogo, un'alta scogliera a picco sul lago, le acque profonde raramente hanno restituito i corpi, per cui i partigiani comunisti che, subito dopo la Liberazione, hanno agito come vere e proprie squadre della morte, erano certi di essere impuniti. A scoprire le ossa umane, nei fondali melmosi, sono stati alcuni sub di Verbania, i quali hanno avvertito i carabinieri, intervenuti sul posto con il Nucleo sommozzatori di Genova. Gli uomini-rana dell'Arma hanno provveduto anche a delimitare l'area in cui giacciono alcuni ordigni bellici inesplosi che dovranno essere presto fatti brillare.

La Procura di Como ha aperto, sul caso, un fascicolo d'inchiesta, affidato al magistrato di turno, Pasquale Addesso. Gli esperti di medicina legale dovranno, per prima cosa, stabilire la datazione dei reperti umani, per accertare la probabile connessione con i fatti di sangue dell'immediato dopoguerra. Resta il fatto che una ricognizione puntuale del fondale del Pizzo di Cernobbio non risulta essere mai stata compiuta, per cui non è da escludere che i carabinieri completino le ricerche già nei prossimi giorni. Secondo Giorgio Pisanò, autore delle prime inchieste approfondite sui fatti accaduti nel Comasco, furono un centinaio le vittime della violenza rossa fatte precipitare, di notte, con un colpo alla nuca, dal dirupo.

In parte, furono fascisti, i «vinti» finiti alla mercé dei «vincitori», bersaglio preferito dei sicari alle dipendenze del Partito comunista. Ma, tra le persone fatte precipitare dalla parete rocciosa, vi furono anche partigiani, cui doveva essere tappata la bocca, con la forza. La sera del 23 giugno 1945, giù dal Pizzo, venne gettata la staffetta garibaldina «Gianna», Giuseppina Tuissi, amante e compagna di lotta del capitano «Neri», Luigi Canali, leader morale della Resistenza lariana. Entrambi comunisti, «Neri» e «Gianna vennero eliminati, su ordine del Pci, e i loro corpi mai più ritrovati. Le acque del Lario, in quel punto, si tinsero nuovamente di rosso, nelle stesse settimane. La notte tra il 4 e il 5 luglio '45, avvenne l'esecuzione di Annamaria Bianchi, un'amica di Gianna, che con lei condivideva molti segreti relativi all'oro di Dongo. Il corpo straziato della Bianchi venne trovato, sul far del giorno, aggrappato alle rocce: per cui il segretario della Federazione comunista comasca, Dante Gorreri, rimproverò i killer di aver svolto malamente lo sporco lavoro: «Un colpo in testa, e uno al ventre, così il cadavere succhia e va a fondo più presto». Il padre di Annamaria, Michele, accorso al Pizzo, gridò tutto il suo dolore. «Se non parlano i morti, parleranno i vivi!», minacciò l'uomo, che conosceva i nomi degli assassini. La mattina del 12 luglio successivo, anche il cadavere di papà Bianchi, fu rinvenuto, mentre galleggiava nelle acque del Pizzo.

I responsabili di questi e di tanti altri delitti compiuti in quei giorni di odio, non hanno mai pagato alcun conto con la giustizia. Per cui, il riemergere di ossa umane, nel luogo-simbolo del terrore rosso, suona oggi come un monito a non dimenticare quanto avvenuto oltre settant'anni fa.

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