Un mestieraccio ingrato, più da carceriere che da magistrato, alle prese con strutture fatiscenti e soldi che non bastano mai. A descriverlo così, si faticherebbe a capire come mai il ruolo di capo del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, sia tanto accorsato da diventare in queste ore l'oggetto di uno scontro senza precedenti tra il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e una delle toghe più famose d'Italia, il palermitano Nino Di Matteo. Certo, sull'altro piatto della bilancia c'è uno stipendio invidiabile: essendo anche il comandante della polizia penitenziaria, il capo del Dap porta a casa una delle buste paghe più pesanti dell'intero apparato statale: 320mila euro all'anno, con ricaduta su Tfr e pensione. Sarebbe però prosaico ridurre a faccenda di quattrini l'aspirazione di Di Matteo a approdare sulla poltrona lasciata libera da Santi Consolo. Il Dap è un posto di potere, ha soprattutto le orecchie lunghe. Nulla, di quanto accade nelle 231 carceri italiane, sfugge al capo del Dipartimento, che riceve per primo le informazioni dei direttori e dei Gom, i temuti nuclei speciali della polizia penitenziaria. E sapere, si sa, significa potere.
Se così si capisce perché Di Matteo aspirasse alla carica, più difficile è capire cosa sia andato storto quando il focoso pm siciliano era a un passo dal successo. Di Matteo era il candidato ideale sia come curriculum, occupandosi di mafia da vent'anni, sia come relazioni politiche: vicino a Marco Travaglio e al Fatto Quotidiano, è da sempre - insieme a Piercamillo Davigo, oggi suo compagno di corrente al Csm - una delle toghe più amate dal Movimento 5 Stelle. Quando Bonafede diventa ministro nel governo Conte 1, a giugno 2018, Di Matteo appare il candidato ideale per diventare il suo uomo sul fronte delle carceri.
Eppure qualcosa, all'improvviso, si rompe. E la spiegazione più verosimile, tra le tante circolate all'epoca, è che in realtà, alla fine, a decidere non sia stato il ministro Bonafede ma direttamente il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Che di mestiere fa l'avvocato, su livelli più alti di Bonafede. E che nel mondo della giustizia ha rapporti, amici e consiglieri.
Nelle ore cruciali in cui prende il via il suo primo governo, Conte ha al suo fianco, ad aiutarlo con pareri e indicazioni, un magistrato: Fabrizio Di Marzio, consigliere di Cassazione e docente universitario, ben introdotto nel mondo della politica romana anche perché siede nella commissione che fa le pulci ai conti dei partiti. Di Marzio, tra l'altro, dirige la rivista dell'Osservatorio sulle Agromafie, di cui Conte è uno dei referee. È in quel contesto che i rapporti tra i due si consolidano. E quando Conte decolla verso i vertici dello Stato, è Di Marzio a sussurrare al suo orecchio.
Passa da quel canale anche il niet all'approdo di Di Matteo al ministero? Di Marzio, questo è sicuro, ha un amico che i pregi e i
difetti del pm palermitano può averglieli descritti bene: Gian Carlo Caselli, che è stato il suo capo alla Procura di Palermo. E che ne conosce a fondo tanto l'acume investigativo che - come dire - gli spigoli caratteriali.
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