Emmanuel Macron legge per lo più un testo già precofezionato dai suo sherpa, mentre Giorgia Meloni si avventura sì a braccio, ma stando ben attenta a tenere una modalità mono-tono. Il tutto in dichiarazioni alla stampa che, fatto davvero inusuale, vengono rilasciate prima e non dopo l'incontro. Un bilaterale atteso otto mesi, tra tensioni e incomprensioni che lo hanno prima congelato e poi rinviato fino a ieri. Quando la premier è sbarcata a Parigi per partecipare all'assemblea generale del Bie (Bureau internationals des expositions) e perorare la causa della candidatura di Roma per l'Expo 2030. L'occasione buona per quella visita all'Eliseo troppe volte rimandata, anche perché Macron ha ricevuto con tutti gli onori sia Mohammed bin Salman (il principe ereditario dell'Arabia Saudita che sostiene la corsa di Riad) che Yoon Suk-Yeol (il presidente della Corea del Sud che punta su Budan).
I due scelgono dunque di parlare prima del bilaterale, con semplici dichiarazioni e senza domande dei giornalisti, in una sala dell'Eliseo dalla temperatura tropicale che non contribuisce a dare la percezione di una sincera distensione. Prima Macron e poi Meloni, d'altra parte, si limitano a rimanere nel perimetro su cui hanno trattato per giorni le rispettive diplomazie, sottolineando in punti d'intesa (dal Patto del Quirinale al sostegno all'Ucraina) ed esercitandosi in letture convergenti per i dossier più sensibili. A partire dai migranti, dove si dicono entrambi d'accordo sulla necessità di intervenire in Tunisia e Libia. Ma se la premier italiana si concentra sulla necessità di «rafforzare il controllo delle frontiere esterne», il presidente francese sottolinea la necessità di un «equilibrio tra responsabilità e solidarietà», rimarcando l'importanza del patto sulla redistribuzione approvato durante il semestre di presidenza francese dell'Ue. D'altra parte, nonostante l'approccio comunque molto rigoroso del governo di Parigi, il capitolo immigrazione è uno dei principali fronti sui cui il partito di Macron marca la differenza con Marine Le Pen. Insomma, il problema non è solo di relazioni diplomatiche tra Paesi, ma anche di politica interna francese. Non è un caso che dopo i viaggi a Tunisi di Meloni (la seconda volta in compagnia di Ursula von der Leyen e dell'olandese Marke Rutte), nei giorni successivi si siano presentati dal presidente Kais Saied i ministri dell'Interno di Francia e Germania, Gerald Darmanin e Nancy Faeser. Senza però coinvolgere il titolare del Viminale, Matteo Piantedosi, come si era deciso qualche mese fa.
D'altra parte, è inevitabile che le vecchie distanze non possano essere cancellate in 24 ore. Anche se riferiscono fonti diplomatiche - sia Macron che Meloni hanno fatto professione di realpolitik e durante il loro lungo bilaterale hanno convenuto sulla necessità di muoversi in modo più coordinato. Tra Italia e Francia sono tanti, troppi gli interessi economici e commerciali in comune. E sarebbe sbagliato, dice la premier quando a sera arriva all'ambasciata italiana per l'evento organizzato a sostegno della candidatura di Roma all'Expo 2030, leggere la politica estera come «una relazione tra ragazzini». Senza considerare che per quanto l'Europa sia storicamente trainata dall'asse franco-tedesco, Roma potrebbe comunque muoversi soprattutto sui Paesi dell'Est in maniera per così dire «non amichevole». A partire dal delicato nodo della riforma del Patto di stabilità, su cui Parigi e Roma hanno posizioni vicine.
Ma c'è un altro, nuovo tema di grande divisione che è emerso nelle ultime settimane. E cioè la scelta di Macron di sostenere la candidatura di Riad. Questione delicata per il presidente francese, anche in chiave interna. Tanto che Meloni ieri non si è voluta infilare in possibili polemiche e si è limitata a dire che «non si è discusso di Expo» e comunque che non si permette di «giudicare». In verità Palazzo Chigi e la diplomazia italiana sono piuttosto infastiditi dalla scelta di Macron, dettata soprattutto da ragioni economiche e che rischia di trasformare l'Expo 2030 in una seconda puntata dei mondiali del Qatar. Ecco perché il tema del rispetto dei diritti sarà nelle prossime settimane al centro della campagna italiana a favore della candidatura di Roma.
Non è un caso che l'altro ieri sia uscito un lungo articolo sul New York Times in cui il presidente e il direttore tecnico del comitato promotore di Expo 2030, Giampiero Massolo e Matteo Gatto, non esitavano a puntare il dito sulla questione diritti ed evocare nel braccio di ferro Roma-Riad un vero e proprio «scontro di civiltà».
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