
Donald Trump ha anticipato che nella sua telefonata, prevista per oggi, con Vladimir Putin si parlerà di «territori e di centrali elettriche». Dmitry Peskov, portavoce di Putin, ha solo confermato l'appuntamento telefonico, senza sbilanciarsi sui temi indicati dal presidente americano. Siamo per ora fermi all'espressione di «cauto ottimismo» trasmessa da Putin all'inviato di Trump Steve Witkoff riguardo il possibile raggiungimento di un'intesa per una tregua. Conoscendo l'imprevedibilità di Trump, oggi è lecito attendersi sorprese, che viste dall'Ucraina potrebbero anche essere spiacevoli. Questo perché il presidente Usa non ha mancato in questi mesi, e soprattutto dopo la tesissima discussione con il collega ucraino Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca lo scorso 28 febbraio, di manifestare chiaramente che il suo cuore (è soltanto un modo di dire, Trump è tutto fuorché un sentimentale) batte più per Mosca che per Kiev.
Qualche episodio recente a conferma di questa realtà, andando oltre quelli già noti e sconcertanti come l'avere Trump definito Zelensky «un dittatore non eletto» e avergli falsamente attribuito una popolarità nel suo Paese al 4%, ben lontana da quella reale attuale stimata al 75%. Spiccano il blocco (poi revocato) delle forniture di armi americane a Kiev, la decisione di chiudere dopo tre quarti di secolo la radio Voice of America, portatrice di notizie non censurate nei Paesi controllati da Mosca e sgraditissima ovviamente al Cremlino. Il politologo Ian Bremmer arriva a temere che Trump ritiri le truppe Usa da avamposti Nato in Europa orientale e Semafor ipotizza un riconoscimento americano della Crimea come territorio russo. Ma è anche attesa per oggi la decisione Usa di ritirarsi dal Centro internazionale per il perseguimento dei crimini d'aggressione contro l'Ucraina: un altro favore fatto a Putin, violatore del diritto e di trattati internazionali.
La lista delle «linee rosse» che Putin pretende non siano oltrepassate nella difficile trattativa tra Mosca e Kiev è lunga, e certamente il dittatore russo spera di trovare «comprensione» presso Donald Trump. Si parte dalle condizioni poste per un sì alla tregua completa di un mese che gli americani hanno già fatto accettare a Zelensky: niente truppe europee o Nato sulle linee d'interposizione, accettazione della sovranità russa sulle quattro province ucraine solo in parte occupate e illegalmente annesse con referendum-farsa, resa delle residue truppe ucraine presenti nella provincia russa di Kursk onde impedire a Zelensky di usare quel territorio come merce di scambio negoziale, veto russo sull'adesione alla Nato dell'Ucraina e sua riduzione a Stato cuscinetto quasi smilitarizzato.
Si tratta in tutti questi casi di durissime concessioni che si pretende d'imporre a Kiev. E sorge ovvio l'interrogativo: ma Mosca invece cosa concederebbe? A nome dell'Europa tutta e in aperto contrasto con Washington ha risposto il ministro finlandese degli Esteri Valtonen, convinto che dovrebbe semmai essere l'aggressore Putin a fare concessioni perché in caso contrario verrebbe leso il diritto internazionale «con implicazioni globali».
Zelensky sembra disposto a sostenere la fine delle sanzioni europee alla Russia (ma non cederà sul ripristino del transito del gas russo verso l'Europa, preteso dalla Slovacchia): in cambio vuole da Putin impegni chiari per la pace e garanzie
solide per la sicurezza dell'Ucraina. Garanzie offerte ieri congiuntamente dal presidente francese Macron e dal nuovo premier canadese Mark Carney nell'ambito di un sempre più ampio fronte dei «volenterosi» a sostegno di Kiev.
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