La Procura di Milano vuole portare alla sbarra i «caporali» del terzo millennio, accusati di fare creste da centinaia di migliaia di euro su uno dei lavori più pesanti inventati dalla gig economy: quello dei rider, i ragazzi in bicicletta che sfrecciano sulle strade (e spesso sui marciapiedi) delle città consegnando sushi, pizze, vino e hamburger a chi preferisce l'intimità di casa alla promiscuità del ristorante. E insieme agli intermediari, il pm Paolo Storari vuole processare anche una manager della multinazionale che gestisce una delle fette più grosse delle consegne a domicilio, la Uber: che per questa inchiesta è stata commissariata dal tribunale e affidata a un custode giudiziario.
Nell'avviso di fine indagini spiccato ieri dalla Procura compaiono, insieme alla esponente di Uber Gloria Bresciani, tre nomi di intermediari, accusati di avere sfruttato il lavoro dei rider. Uber e intermediari sono accusati di avere arruolato «approfittando dello stato di bisogno migranti richiedenti di asilo in condizioni di estrema vulnerabilità e isolamento sociale». Per dare un'idea del volume d'affari: una delle indagate si è fatta intercettare mentre svuotava la cassetta di sicurezza dove aveva imboscato i proventi dell'affare, dentro la borsa trovata nella Mercedes della signora c'erano trecentomila euro in contanti. Secondo la ricostruzione della Procura, i rider venivano pagati a cottimo, tre euro a consegna, «indipendentemente dalla distanza da percorrere, dal tempo atmosferico, dalla fascia oraria». E venivano anche derubati delle mance.
La Procura parla di «condizioni di lavoro degradanti, con un regime di sopraffazione retributivo e trattamentale». Ma se i rider sono indubbiamente le vittime del sistema, meno chiaro è se le responsabilità principali siano di Uber o degli intermediari. Secondo la memoria depositata da uno dei presunti «caporali», il sistema in realtà era stato ideato e imposto dalla multinazionale, anche per dare corso all'accordo in esclusiva con un altro colosso, Mc Donald's, che rifiutava di consegnare i talloncini delle consegne ai singoli rider.
Nella memoria difensiva, l'intermediario offre uno spaccato dall'interno del mondo delle consegna a domicilio, negando di avere mai sospeso nessuno dal servizio: «non abbiamo mai punito alcuno, pagandolo sempre nonostante ne avesse combinate di tutti i colori: dal ragazzo che si mangiava una consegna al giorno a quello che mangiava mezzo panino e l'altro lo rimetteva nella scatola»; e spiegando che a sfruttare i rider a volte erano altri immigrati, «è uso comune di molti ragazzi vendere la propria identità a chi non può lavorare essendo sprovvisto di permesso di soggiorno». A imporre il cottimo era sempre Uber: «Più e più volte ci siamo lamentati con Uber affinché aumentasse il valore delle consegne, ma tutto è stato inutile, anzi, nel corso del tempo tale tariffa è sempre più diminuita in tutte le città.
Abbiamo sempre avuto l'impressione - conclude - che per i manager di Uber, i riders fossero solo dei puntini su di una mappa, da attivare o bloccare a loro piacimento con il mero intento di far guadagnare ad Uber il più possibile».
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