Vietato aiutare gli amici L'ultima follia fiscale è la tassa sulla cortesia

La commissione tributaria di Ancona condanna un notaio per non aver fatturato delle consulenze ad amici. Viene criminalizzata l'opera gratuita

Vietato aiutare gli amici L'ultima follia fiscale è la tassa sulla cortesia

In molti Paesi, fare una donazione con finalità benefiche contribuisce a ridurre di molto il carico fiscale, dando diritto ad usufruire di apposite deduzioni. In Italia rischiamo di arrivare all'opposto, ovvero alla regola per cui chi compie atti di cortesia, anziché vedersi diminuire le tasse, se le vede aumentare.

Almeno, questo è il principio che risulta da una recentissima sentenza della commissione tributaria provinciale di Ancona. Il caso riguardava un avviso di accertamento nei confronti di un notaio per una serie di ragioni, tra cui l'omessa fatturazione di alcuni compensi.

L'Agenzia delle Entrate contestava al professionista di aver percepito dei guadagni in nero, senza fatturarli e quindi senza poi dichiararli. Il notaio ha fatto ricorso, spiegando di non aver mai realmente incassato quelle somme. Infatti, «la mancata percezione di onorari, e/o la percezione di onorari in misura irrisoria, nei confronti di alcuni clienti, trovano ragion d'essere nei rapporti di consuetudine e anche di amicizia che si sono nel tempo creati tra il notaio e i clienti, come pure per ragioni di cortesia, di convenienza sociale, di buona creanza, nei confronti di persone alle quali era legato da particolari sentimenti di amicizia o da rapporti di collaborazione o di gratitudine».

I giudici di Ancona non hanno ritenuto convincente l'argomentazione del notaio (definita «singolare e patetica»), respingendo il suo ricorso e condannandolo pure a pagare le spese. Ma quel che ha dell'incredibile è la motivazione con cui lo hanno fatto. La commissione tributaria, infatti, non si limita a ritenere non credibile l'argomentazione del notaio: è possibilissimo che il lavoro fosse stato realmente gratuito o a prezzi di estremo favore, ma nel nostro sistema tutto a favore del fisco, è il contribuente a doverlo provare, un compito per nulla semplice.

Ma se i giudici si fossero limitati a questo, non ci sarebbe purtroppo da stupirsi. Qui però vanno ben oltre, arrivando ad affermare che, anche se effettivamente gli incassi non erano previsti, perché la prestazione è stata svolta a titolo di cortesia, comunque il contribuente ha torto: infatti, «se il professionista avesse voluto omaggiare i clienti/amici, avrebbe dovuto regolarmente fatturare i compensi declinandone il pagamento e accollandosi l'onere fiscale che, invece, ha accollato allo Stato e quindi a tutti i cittadini contribuenti». Cioè, secondo la commissione, lavorando gratis si fa un danno alla collettività.

Tremino dunque tutti i professionisti che hanno avuto l'ardire di dare un parere gratuito all'amico, al parente o al conoscente, magari davanti a una pizza o in una riunione di famiglia: ogni volta che per gentilezza lo hanno fatto, avrebbero dovuto farsi firmare un incarico, fatturare e poi subito rinunciare al compenso, ma pagare comunque le imposte sull'importo del tutto ipotetico.

Un simile ragionamento ignora completamente la realtà di lavoro quotidiana dei professionisti, nella quale, in una (condivisibile) ottica di favore per la concorrenza, le tariffe sono completamente saltate, e i professionisti possono legittimamente decidere di dare un primo parere gratuito perfino a un non conoscente, per guadagnarselo come cliente per incarichi remunerati futuri.

Ma per i giudici di Ancona tutto questo non conta niente, così come non conta che in tutto il mondo esista, e anzi sia molto incoraggiato, il lavoro pro bono dei professionisti.

C'è solo da sperare che la sentenza venga sbertucciata in appello e che (almeno) questa pretesa del fisco venga respinta al mittente: di tutto abbiamo bisogno, fuorché di tassare la cortesia.

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