Le voci di Manchester inno alla nostra libertà

Il concerto non chiedeva la rivoluzione ma di preservare l'identità dell'Occidente

Le voci di Manchester inno alla nostra libertà

Mai contenti. Per quasi mezzo secolo, più o meno da Woodstock in avanti, il rock e il pop sono stati accusati (spesso giustamente) di sventolare parole vuote, di sognare il sovvertimento delle convenzioni e il trionfo di un progressismo più utopico che concreto. I megaraduni sotto i palchi delle rockstar - si diceva - sono le sale giochi dei radical chic che, a proprio uso e consumo, verniciano di ideologia ciò che in realtà è soltanto un bell'evento musicale. E così si sono rivelati, spesso essenziali per la musica (al Live Aid ad esempio ci furono momenti unici), talvolta significativi per la circolazione di messaggi (il Live 8 per la cancellazione del debito delle nazioni povere, per dire) ma, tutto sommato, quasi sempre marginali nella vita dell'Occidente. Insomma, si voleva la rivoluzione e poi si saliva sul jet privato e tanti saluti a tutti (salvo poche eccezioni). Diciamocela tutta: era diventato un rituale stantìo e qualche volta ridicolizzato dai fatti, ma comunque testimonianza di una società, la nostra, serena e, soprattutto, sicura. E anche il copione dei concertoni era diventato lo stesso dei talk show: da una parte quelli a favore, dall'altra quelli contro. Punto.

Le cose sono cambiate, e di molto.

Oggi i raduni musicali, come quello straordinario di Manchester l'altra sera, non vogliono la rivoluzione, vogliono la conservazione. Non riguardano una parte più o meno grande di popolazione, riguardano tutto l'Occidente, tutti noi, insomma tutto ciò che abbiamo costruito in millenni. Chiedere che una popstar di 24 anni (neanche compiuti) come Ariana Grande salga sul palco per aizzare la folla come una Marine LePen qualsiasi equivale a garantirle, se va bene, soltanto una parodia dei Simpson. Se va male, un'altra mitragliata di violenza. Il compito di questi eventi oggi, è di ridare entusiasmo al nostro «tesoretto», ossia ai nostri figli che l'occidente spesso dimostra di conoscere meno a fondo di chi li odia, e di garantire che, alla faccia degli idioti che si fanno esplodere, noi non cambiamo le nostre abitudini di gioia, siano un concerto oppure una gara sportiva. One Love Manchester è stato esattamente questo, visto che è andato in scena due settimane dopo che nella vicinissima Arena un disgraziato ha fatto 22 morti e circa diecimila degli oltre cinquantamila spettatori dell'Old Trafford erano ancora «macchiati» da quel sangue. È stato un segnale a quei pazzi dell'Isis come a dire: occhio che noi non cambiamo e siamo comunque più forti di voi. Al di là del linguaggio usato durante lo show, questo è stato il messaggio lanciato forte e chiaro. Perciò, ora che la politica di parte è stata giocoforza espulsa dai palchi rock, bisogna brindare.

Forse per la prima volta, la musica leggera popolare gioca per tutti, grandi e piccini, genitori e figli, facendo nulla più di ciò che prevede la sua ragione sociale: intrattenere e condividere. Al resto, se proprio bisogna dirlo, dovrebbero pensare i politici.

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