«Una bella notizia», esulta subito Nicola Zingaretti. Ma bisogna capire per chi.
Il leader Pd (che giura: nessuna ricaduta sul Campidoglio, «mai con la Raggi, dopo questi cinque anni drammatici»), ha lavorato sottotraccia per settimane con Gigino Di Maio per arrivare al risultato di ieri. Il rito del voto su Rousseau, reso ancor più ridicolo del solito dalla collocazione ferragostana, assicura la ricandidatura degli attuali eletti che temevano la tagliola del «secondo mandato», e sancisce il patto politico tra Pd e M5s, blindando la legislatura. Ma, soprattutto, sancisce un passaggio di testimone: la guida politica della maggioranza non starà più a Palazzo Chigi.
Di Maio è stato lesto nel mettere il cappello sul sì all'alleanza: «Oggi abbiamo scelto di incidere e di provarci», gorgheggia a urne ancora aperte. Secondo l'antico adagio per cui «beati monoculi in terra caecorum», il ministro degli Esteri - forte di una capacità di manovra politica a sfondo partenopeo che nella prima repubblica lo avrebbe reso brillante discepolo del compianto Antonio Gava - si è facilmente ripreso il bastone del comando nel suo partito di figuranti. E, insieme al segretario del Pd, ha messo all'angolo il premier Conte. Sconfiggendo il confuso Casaleggio jr e il povero Di Battista disoccupato, certo, ma il principale perdente rischia di essere proprio l'ineffabile Giuseppi.
Se l'alleanza di convenienza tra Cinque Stelle e Pd si trasforma in patto politico organico (almeno di qui alla successione al Quirinale), la necessità di un premier «terzo» finisce inesorabilmente per indebolirsi. Sia Zingaretti che il gruppo dirigente grillino hanno ogni convenienza ad arginare il protagonismo politico del premier, che toglie spazio e rischia di togliere voti ad entrambi. Tanto più in vista del gran banchetto d'autunno, quando sarà fondamentale capire chi gestirà l'epocale afflusso di fondi dall'Unione europea. Da mesi cresce l'insofferenza del Nazareno e di M5s per l'invadenza contiana nei vasti sottoboschi del potere romano: nomine, posti, affari, gestione dei dossier. In futuro, quell'insofferenza può trasformarsi in qualcosa di più. Un esponente dem la spiega così: «Se la maggioranza da coalizione di emergenza anti-Salvini diventa alleanza strategica, con intese nelle regioni e soprattutto nelle amministrative del prossimo anno, i contraenti del patto devono accordarsi sulla spartizione del potere: il sogno di Di Maio è di sedersi a Palazzo Chigi al posto di Conte. In cambio, il Pd potrebbe avere un proprio uomo al Quirinale...».
Ci sono ovviamente anche scenari alternativi: una parte del Pd non smette di sperare in un governo Draghi, affiancato magari da due vicepremier politici (il medesimo Gigino e Zingaretti). Una cosa pare certa: difficilmente in autunno ci sarà un rimpasto e un Conte ter. L'alternativa sarà tra l'attuale governo, o un governo senza Conte.
Nel Pd le voci critiche contro l'operazione Rousseau si contano sulle dita di una mano. Uno dei pochi a parlare è Matteo Orfini: «Le alleanze si decidono in base a una visione del paese, a progetti e programmi. Non con un improbabile sondaggio il 14 agosto: il Pd recuperi autonomia e visione. E il coraggio delle proprie idee». Duro anche Giorgio Gori: «Non dico cosa penso di queste consultazioni via Rousseau. Ma almeno i 5 Stelle fanno finta di chiedere alla base cosa ne pensi. Il Pd manco quello».
A Matteo Renzi, invece, l'appiattimento dei dem sull'alleanza coi grillini non spiace, perché apre spazi politico-elettorali a formazioni liberal-riformiste: e infatti in contemporanea con l'idillio tra Gigino e Zingaretti, l'ex premier sancisce la pace con Carlo Calenda: i due si dichiarano «rispetto e stima», e iniziano le manovre di avvicinamento.
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