Via al processo farsa per San Suu Kyi

La farsa è iniziata. Lo chiamano processo, ma è una messa in scena per una sentenza già scritta. Resta solo da vedere se Aun San Suu Kyi finirà in carcere o continuerà la sua esistenza di sepolta viva nella fatiscente dimora di University Road. Il generale Than Shwe e gli altri tiranni di Rangoon l’hanno, probabilmente, già deciso, ma il simulacro di processo nella vetusta galera inglese di Insein fa parte della liturgia. A subirla assieme alla «signora» ci sono mamma Khin Khin Win e sua figlia Win Ma Ma, le due fedelissime che l’assistono nell’odissea detentiva prolungatasi tra carcere e arresti domiciliari per 13 degli ultimi 19 anni. Accanto a loro s’angustia il mitomane John Yettaw, il 53enne mormone americano responsabile della nuova imminente condanna di San Suu Kyi. Senza di lui il Premio Nobel per la Pace tornerebbe libera il 27 maggio, allo scadere della precedente condanna. Senza di lui i generali non avrebbero pretesti per prorogarne la detenzione. Grazie a quel personaggio approdato alla casa di San Suu Kyi la notte del 3 maggio dopo aver attraversato a nuoto l’Inya Lake i generali hanno il cavillo tanto desiderato. È una colpa lieve, ma sufficiente a processare Aung San Suu Kyi per violazione della pena detentiva e togliersela dai piedi fino alle cosiddette elezioni multipartitiche del prossimo anno. Del resto quella donna minuta, risollevatasi dalla malattia che le impediva di mangiare e reggersi in piedi, rappresenta non solo gli ideali di libertà del Paese, ma anche le peggiori paure dei dittatori di Rangoon.
Per capirlo basta l’oltraggio andato in scena all’inizio del processo quando i giudici chiamano alla sbarra l’imputata senza usare il nome di Aung San, eredità di un padre simbolo dell’indipendenza nazionale. «Se non mi potete chiamare con il mio nome, non mi muovo» – replica la piccola grande donna che alla fine costringe la corte a pronunciare il nome proibito. Il finale resta però ineluttabile. La stessa ambientazione sembra scelta per cancellare qualsiasi illusione di clemenza. La galera di Insein è il luogo simbolo della cinquantennale repressione imposta da Ne Win e dagli altri dittatori succedutisi al potere dal 1962. Là dentro torture, stenti e malattie hanno piegato volontà e vite di migliaia di dissidenti. Lì dentro fanno capire Than Shwe e i suoi accoliti si consumerà anche la parabola terrena della grande nemica se continuerà ad intralciare il manovratore.
E anche stavolta reazioni e sdegno internazionale sembrano destinati a contare poco o nulla. L’ambasciatore italiano Giuseppe Cinti presentatosi ieri mattina davanti ai cancelli di Insein è stato rispedito indietro assieme ai suoi colleghi di Regno Unito, Australia, Francia e Germania. L’unico ammesso in aula è stato il console americano arrivato ad assistere quell’impiastro di John Yettaw. I militari di Rangoon hanno del resto sviluppato un’inveterata indifferenza alle reazioni del mondo libero. E probabilmente neppure la proposta del responsabile della politica estera europea Janvier Solana d’inasprire le sanzioni e isolare il paese li smuoverà di un millimetro.

Grazie alla collaborazione di Cina e India, le due grandi alleate madrine impegnate a saccheggiare e a contendersi le risorse naturali della Birmania, Than Shwe e i suoi generali hanno di che vivere, arricchirsi e garantirsi, grazie a consistenti aiuti militari, il contenimento di qualsiasi rivolta e qualsiasi dissenso.

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