Prodi, 10 anni di finti addii per restare sempre in sella

È dal 1996 che il Professore riesce a convincere gli alleati di essere insostituibile minacciando di farsi da parte

Giuseppe Salvaggiulo

da Milano

Dichiararsi sostituibile per rendersi indispensabile. Sono dieci anni che Prodi fa il leader del centrosinistra e sono dieci anni che puntualmente, quando si sente in discussione, sfida gli alleati: se credete di poter fare a meno di me, sono pronto a farmi da parte. Nella speranza (per lo più fondata) che tutti in coro lo implorino di restare, restituendo linfa alla sua leadership logora. Fingere di fare un passo indietro per farne due avanti è infatti la sua personale mossa dell’arrocco. Il rituale tattico in cui si rifugia il leader senza partito, il Professore bolognese che non vivrebbe mai a Roma, «l’amministratore straordinario» (Carlo De Benedetti dixit) del centrosinistra che prova a sottrarsi alla morsa degli azionisti di riferimento (D’Alema, Marini, Bertinotti...).
Dunque la minaccia risuonata mercoledì nei palazzi della politica («non sono un uomo per tutte le stagioni. Non vi vado più bene? Allora trovatevi un altro presidente del Consiglio!») non è inedita. Certo, talvolta cambiano le parole, si evolvono i mezzi (tv, internet... ) ma il tono e soprattutto il messaggio restano gli stessi.
Fin dai primi mesi dell’Ulivo. A gennaio 1996, ancor prima delle elezioni, la leadership è già appannata: «Concorrenti non ne vedo per ora. Comunque non ho problemi a rimanere disoccupato». Vince le elezioni, approda a Palazzo Chigi ma la luna di miele dura poco. Ottobre 1997: Rifondazione minaccia di ritirare la fiducia e il governo rischia di cadere. «Mi sento come un amante tradito - confessa amareggiato -. Potrei tornare a Bebbio anche subito. Quando uno ha fatto il proprio dovere non ha alcun problema». Funziona: Bertinotti torna nei ranghi, crisi rimandata.
Un anno dopo, ci risiamo: Fausto fa le bizze, Romano intona il ritornello: «Vado avanti per la mia strada, non corro dietro agli alleati, sono pronto a passare la mano». Ma questa volta è diverso, questa volta - lo capisce anche lui - «la crisi non è pazza, è scientifica». L’arrocco non riesce, scacco al re. Prodi resta solo. Perde davvero la leadership e torna a casa. E D’Alema va al suo posto a Palazzo Chigi.
Spedito a Bruxelles, dove si spera non possa disturbare i manovratori dell’Ulivo, Prodi medita la rivincita, la prepara, la consuma. Nel 2003 lancia la lista unitaria e la pone come condizione per rientrare in Italia e salvare il centrosinistra senza guida. Dopo le agrodolci elezioni europee, a chi gli chiede se la leadership sia già tornata in discussione, risponde ostentando sicurezza: «E vorrei anche vedere che non lo fosse... comunque non vedo concrete alternative».
Passa l’estate, i problemi tornano a galla. Settembre 2004: il vertice dell’Ulivo rimanda alle calende greche le primarie a cui tiene tanto. Riparte la sfuriata: «Non me l’ha mica ordinato il medico di fare il leader di questa coalizione». A dicembre Ds e Margherita nicchiano sul Listone per le Regionali. Il Professore prende il primo treno per Bologna e sbotta: «Avete un progetto alternativo? Trovate un altro candidato e io faccio un passo indietro. Non ho problemi di leadership, non sarò io il problema, non resterò un minuto in più di quel che serve».
Alla fine le liste unitarie si fanno a macchia di leopardo, ma il trionfo elettorale pacifica l’Unione. Prodi convoca gli alleati e poi dichiara: «Nella riunione di oggi ho proposto che il tema della leadership sia da considerare risolto con il voto di ieri». Dopo l’estate, punto e a capo. Questa volta lo sfogo di Prodi naviga su internet: «Dobbiamo considerare anche l’eventualità di riaprire un confronto franco e collettivo sulla guida dell’Unione».
Ancora in treno, stesso percorso di sempre, nel giugno 2005. Nuove incomprensioni con i partiti sulle primarie: «Io sono qui per realizzare il progetto dell’Ulivo, per il quale sono disposto a rinunciare alla premiership». Qualche giorno dopo, la tensione non si smorza e il Professore alza il tiro in televisione: «Non ho mai pensato di essere indispensabile, ma di essere coerente sì. Io ho questo disegno, poi se sarà unito alla mia leadership benissimo. Ma non posso accettare di regnare senza governare. Darò comunque il mio apporto, anche fuori da Palazzo Chigi e anche facendo il professore».
Invece non ci pensa nemmeno a tornare a insegnare economia.

A settembre lo stallo nell’Unione non si sblocca: «Non mi sento indispensabile, preferisco pensarmi utile», scrive in una lettera al Foglio. Traduzione: senza di me non andate da nessuna parte. Il solito arrocco per evitare lo scacco matto.
giuseppe.salvaggiulo@ilgiornale.it

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