LAfghanistan è la prova provata della debolezza e dell'ambiguità del governo Prodi. È noto che la politica estera costituisce il principale profilo identitario di un governo e l'immagine che un Paese dà di se stesso alla comunità internazionale. Perciò l'impegno italiano in Afghanistan ha rappresentato in questi anni la migliore carta di credito con cui l'Italia si è presentata al mondo del post-11 settembre.
Finora anche gran parte dell'Ulivo aveva plaudito alla missione di Kabul. Si trattava, infatti, e si tratta, di una missione multilaterale sotto l'egida delle Nazioni unite - International Security Assistence Force - per combattere il fondamentalismo violento, sradicare l'oppio quale polmone finanziario del terrorismo, e favorire la ricostruzione di una società civile, per quanto possibile libera e democratica. Era perciò giudicata una causa «nobile», ben diversa da quella irachena, ritenuta «ignobile» dalla sinistra.
Ora, in controtendenza, si è scatenata l'offensiva della sinistra massimalista per bloccare la missione d'Afghanistan dove, anche ieri, i terroristi hanno fatto strage dei loro correligionari islamici. Il ministro verde Pecoraro Scanio vuole dettare le sue condizioni per il rifinanziamento della missione. I Comunisti italiani pretendono un non meglio precisato «sbocco di pace per l'Italia». Settori diessini e dipietristi minacciano di non votare ricattando l'esile maggioranza; e Franco Giordano di Rifondazione comunista chiede, più esplicitamente, «il rafforzamento dell'identità pacifista del governo».
Ecco dunque dove sta la vera malattia del governo che tiene sotto scacco l'intero equilibrio nazionale: il pacifismo. Un termine che significa l'opposto di una politica di pace la quale comporta sempre una mobilitazione contro i suoi nemici, oggi i fondamentalisti islamici e i terroristi d'ogni genere. Il pacifismo è la tabe del secolo: significa passività, accettazione dei totalitarismi, sopportazione della violazione dei diritti umani, irresponsabilità internazionale verso l'autoritarismo, acquiescenza ai tirannelli, cinica realpolitik e quieto vivere. Monaco, 1939, insegna.
È facile comprendere perché dietro la retorica della pace la protervia pacifista contrabbanda la coesistenza passiva con il terrorismo. Ecco perché si vuole mettere in crisi la limpida missione italiana in Afghanistan, malamente difesa dai nostri governanti prigionieri del tatticismo. Il premier, fedele al suo tartufismo, proclama che occorre «introdurre elementi di novità nella missione». Di grazia, professor Prodi, che significano gli «elementi di novità»? Riesce, qualche volta, ad esprimere una linea chiara degna di un governo che si dice riformista?
Anche il ministro degli Esteri non è da meno nella nebbia delle parole che offuscano le decisioni politiche. Dopo avere riaffermato con responsabilità «che il ritiro delle truppe italiane non è realisticamente all'ordine del giorno», ha aggiunto un ambiguo messaggio: «Serve una svolta politica». Che, tradotto in volgare, significa una strizzata d'occhio a quanti - sinistra comunista, pacifista, massimalista - invocano la cosiddetta «discontinuità» con il «demoniaco» governo Berlusconi.
Come se la politica estera di un Paese serio non avesse, al contrario, bisogno di continuità nell'interesse nazionale.
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