«Al Qaida è sempre pronta a colpirci in Libano»

«In giugno l’organizzazione terroristica ha ucciso 6 spagnoli dell’Unifil, restiamo all’erta»

«Al Qaida è sempre pronta a colpirci in Libano»

da Naqoura (Libano del Sud)
«Comandante, si sente un generale sull’orlo dell’abisso?». Il generale Claudio Graziano, l’italiano al comando di tutte le forze Unifil nel Libano del Sud, ti guarda con l’imperturbabilità da vecchio alpino, poi snocciola un «no» così secco da suonare come una bacchettata al segretario generale delle Nazioni Unite, il sud-coreano Ban Ki Moon.
Non lo dico io, l’ha detto a Beirut il suo capo Ban Ki Moon.
«Lui parlava della sicurezza interna libanese, io parlo del Sud del Libano e non mi sento sull’orlo dell’abisso».
Non giriamoci attorno. Lei e i suoi 12mila caschi blu, tra cui 2.500 italiani, siete in Libano e le parole del suo capo non sono di buon auspicio.
«Voleva solo far capire ai leader politici libanesi che non devono abdicare alle loro responsabilità».
Secondo gli israeliani, dopo l’attentato di giugno costato la vita a 7 caschi blu spagnoli, la preoccupazione per la sicurezza dei caschi blu prevale sugli obiettivi della missione.
«Le misure si adeguano alla situazione reale. Qualcuno si dichiara avversario di Unifil e questo rende indispensabili delle precauzioni, ma ciò non pregiudica la nostra capacità operativa».
Chi è il nemico di Unifil?
«L’attacco è stato benedetto apertamente da Al Qaida».
Metterebbe la mano sul fuoco per Hezbollah?
«L’esecutore è sicuramente un gruppo al qaidista. Risalire ai mandanti è molto più complesso. Formalmente Hezbollah si dichiara estraneo e contrario e secondo noi non ha interesse a usare le armi contro questa missione».
Le sue truppe sono a rischio?
«Chi ha colpito a giugno ha probabilmente altre cellule attive e aspetta solo di attaccare. Quindi dobbiamo fare massima attenzione altrimenti rischiamo il disastro».
Il resto tutto bene?
«Il giudizio va misurato su tempi più lunghi, ma il successo è straordinario, la stragrande maggioranza degli obbiettivi della risoluzione 1701 è stata conseguita. Dove c’erano milizie armate c’è l’esercito libanese, dove c’era il vuoto ci sono dodicimila soldati Unifil, c’è ripresa economica con alto sviluppo edilizio».
Lo sceicco Yazbek, uomo della “guida suprema” iraniana Ali Khamenei in seno a Hezbollah, ha annunciato il raddoppio delle capacità militari.
«Ne prendo atto».
Difficile parlare di successo.
«Non esistono riscontri di un riarmo a questo livello. Il disarmo di Hezbollah non rientra nei nostri compiti, ma va risolto con un negoziato interno. Il nostro mandato è strettamente geografico, e prevede che a Sud del fiume Litani non vi siano attività ostili e circolazione di armi. Non sono responsabile per il riarmo a Nord del Litani o nella Valle della Bekaa. Non so neppure dove inizia e finisce la propaganda e se siano più o meno armati di prima».
I rapporti Onu denunciano il passaggio di ingenti quantitativi di armi dal confine siriano. Arrivano al Sud?
«Non è sicuro che non arrivino, ma noi facciamo il possibile per evitarlo dispiegando 400 pattuglie al giorno. Gli stessi israeliani dicono che l’aerea è sicura. Il problema è cosa ci sia nelle cantine».
Se non lo sa lei...
«Qui non abbiamo mai intercettato movimenti di armi. Qui Hezbollah ha sempre dichiarato il suo appoggio formale alla 1701. Probabilmente cercando nelle cantine, però il nostro mandato non lo prevede, si troverebbero delle armi. Ma qui Hezbollah rappresenta il 60 per cento della popolazione. Il disarmo, se avverrà, richiederà un sacco di tempo. Un gruppo come quello non si può disarmare con la forza. Noi possiamo solo garantire che nessun elemento armato violi la risoluzione 1701 o compia atti ostili».


C’è ambiguità: la risoluzione 1701 afferma di perseguire tutti gli obiettivi delle precedenti risoluzioni compresa la 1559 incentrata proprio sul disarmo di Hezbollah
«La ricerca di armi spetta solo all’esercito libanese. Noi possiamo solo intervenire su loro segnalazione...»
È mai successo?
«No».

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