Quando era l’Italia a dettare legge in Francia

Dalla Cir di De Benedetti, alla Béghin-Say dei Ferruzzi. Con la Fiat prima casa straniera nel mercato d’Oltralpe

Alberto Toscano

da Parigi

«Se un coccodrillo t'attacca è meglio perdere un braccio che farsi mangiare completamente». La frase non è di Confucio, ma di un imprenditore francese, intento ad annunciare la cessione di una sua filiale, specializzata nella produzione di olio per insalata, a un gigante agroalimentare di Ravenna, deciso ad averla a tutti i costi. La scena si svolse alla fine degli anni Ottanta e i suoi due protagonisti non possono più raccontarla, essendo stati travolti da un incidente aereo e dai contraccolpi di una certa inchiesta milanese.
In quel momento il capitalismo italiano sembrava un esercito compatto alla conquista della Francia. L'uomo d'affari rampante Alain Minc diceva in articoli e interviste che «l'avvenire è nel Mediterraneo», teorizzando il carattere esemplare della grinta imprenditoriale nostrana. Peccato che lo stesso Minc abbia preparato - nella sua veste di responsabile di Cerus, la holding parigina di Cir - l'impresa costata più cara al «nuovo capitalismo» italiano in ambito europeo: l'attacco alla Société Générale de Belgique (Sgb), annunciato il 18 gennaio 1988 e conclusosi nel giugno seguente con la vittoria dei contrattaccanti del gruppo francese Suez, ampiamente e spudoratamente sostenuto dai governi di Parigi e di Bruxelles. Ma «Les Italiens» erano ovunque. La stessa Cerus alternava successi e scivoloni nella sua espansione francese: nel 1986 riusciva a conquistare Valeo (componentistica auto), ma perdeva un'Opa sul gruppo editoriale Presses de la Cité.
A Parigi le banche italiane avevano denti lunghi, portafogli pieni e ambizioni sfrenate. La Comit entrava in Paribas al momento della sua privatizzazione (gennaio 1987). Il Banco di Roma aveva un'ampia sede in rue IV Septembre, tra l'Opéra e la Borsa. Poi ha comprato la Banque Générale du Commerce e s'è trasferito alla sede di quest'ultima in rue Marbeuf, vicino agli Champs Elysées. Alla fine ha fatto i bagagli. Sugli Champs Elysées c'era anche la Bnl, che nutriva anch'essa - ironia della sorte - grandi ambizioni in quella che sembrava terra di conquista per la ruspante finanza italiana. Niente in confronto alle ambizioni del San Paolo, che al momento delle privatizzazioni francesi del periodo 1986-88 riuscì a ottenere il controllo della Banque Vernes. Nazionalizzata dal governo di sinistra nel 1982, quell'importante banca era stata strappata alle mani miliardarie di un personaggio simbolo del capitalismo famigliare transalpino: Jean-Marc Vernes, che era seduto in una raffica di cda e che guidava il gigante saccarifero francese Béghin-Say. Un gigante che - in quei roventi anni 80 - costituì la principale conquista parigina di Ferruzzi-Montedison. Vernes fu abilissimo nell'aprire a Raoul Gardini le porte del numero uno dello zucchero francese, a condizione di restarne il presidente (nel 1987 entrò anche nel cda Montedison). Gardini era convinto di una cosa: per espandersi in Francia doveva trovare il sostegno degli agricoltori.
Quando accendevano la tv - trovando La Cinq, nel cui capitale la quota Fininvest era del 40 per cento nel periodo 1984-86 e poi del 25 per cento, livello massimo consentito dalla nuova legge - o quando salivano in auto, i francesi non potevano non pensare all’Italia. Simbolo vivente dell'Italia in Francia è sempre stato il gruppo Fiat, che allora era anche il numero uno tra i gruppi stranieri entro i confini nazionali.


Sotto l'abile guida di Giorgio Frasca, che ha sempre saputo tessere strette relazioni con i livelli più alti dell'establishment transalpino, il gruppo Fiat è riuscito a mettere a segno affari eccellenti e a mantenere un ruolo di rilievo in Francia anche al di fuori dell'auto. L'esperienza di Fiat può dare un po' d'ottimismo: il capitalismo italiano continua a essere presente e dinamico in Francia.

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