Pierluca Pucci Poppi
Non appena eletto presidente dell'Iran, l'oltranzista Mahmud Ahmadinejad ha pubblicamente ribadito che Teheran non intende rinunciare al suo programma nucleare, e i recenti annunci della teocrazia iraniana sulla prossima ripresa delle attività di arricchimento dell'uranio sono coerenti con questa impostazione massimalista. Le dichiarazioni di Teheran hanno allarmato Stati Uniti e Israele, convinti che l'Iran stia cercando da anni di ottenere la bomba atomica sotto la copertura di un programma nucleare civile, e costernato i tre Stati europei - Francia, Germania e Gran Bretagna - che hanno negoziato a lungo con la repubblica islamica la limitazione delle attività iraniane di arricchimento dell'uranio, potenzialmente capaci di condurre alla bomba. L'Aiea, l'agenzia internazionale per l'energia atomica, ha più volte richiamato l'Iran al rispetto del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) e ha segnalato «gravi inadempienze» iraniane, oltre a sotterfugi con cui Teheran avrebbe cercato di nascondere ai tecnici Aiea impianti clandestini di arricchimento dell'uranio. Ufficialmente, il programma nucleare iraniano è pacifico ed è destinato alla sola produzione di energia elettronucleare civile, ma vi sono molti dubbi al riguardo. L'Iran non manca certo di energia: possiede, oltre a immensi giacimenti di petrolio, le seconde riserve di gas naturale al mondo, e il costo del kilowatt prodotto da una centrale a gas sarebbe minore di quello prodotto dalla centrale atomica di Bushehr, iniziata dai tedeschi negli anni '70 e in via di completamento da parte di tecnici russi. Perché l'Iran privilegia una soluzione antieconomica?
Il nocciolo della questione è se il programma nucleare di Teheran sia puramente civile, e quindi lecito secondo il Tnp di cui l'Iran è firmatario, oppure se la teocrazia intenda usare le sue centrali in costruzione per acquisire la tecnologia necessaria alla fabbricazione della bomba. Su questi aspetti, può essere interessante la storia delle relazioni franco-iraniane negli anni '70 e '80, che racconta di una guerra non dichiarata fra i due Paesi: una guerra per l'uranio, combattuta a colpi di attentati, rapimenti e omicidi.
Nel 1974, un anno dopo il primo shock petrolifero che moltiplica da un giorno all'altro gli introiti dei Paesi esportatori di greggio, lo scià di Persia Reza Pahlevi lancia un ambiziosissimo programma di modernizzazione industriale del suo Paese. Tra i grandi progetti da finanziare con i petrodollari iraniani, lo scià inserisce un faraonico piano di costruzione di centrali nucleari, affidato a francesi, tedeschi e americani (che avevano già fornito a Teheran un piccolo reattore di ricerca alla metà degli anni '60). È la Francia a fare la parte del leone: durante la visita di Reza Pahlevi a Parigi nel giugno del '74, il sovrano iraniano e il presidente francese Giscard d'Estaing concordano «una vasta cooperazione scientifica, tecnica, industriale, per l'impiego pacifico dell'energia nucleare», come recita il comunicato ufficiale. Nei dettagli, l'accordo prevede la vendita di cinque centrali atomiche francesi; la costruzione di un centro nucleare con tre reattori di ricerca; lo sfruttamento comune di giacimenti di uranio in Iran e in Paesi terzi; la formazione degli scienziati atomici iraniani. Corollario di questo super-accordo nucleare è l'accesso dell'Iran all'industria di arricchimento dell'uranio, per ottenere il combustibile necessario al funzionamento delle centrali. Teheran concede alla Francia un prestito di un miliardo di dollari per il consorzio europeo a guida francese Eurodif, che sta costruendo a Pierrelatte, nella valle del Rodano, il più grande complesso industriale al mondo di arricchimento dell'uranio a fini civili. Come contropartita, il Commissariato francese per l'energia atomica (Cea) crea la società mista franco-iraniana Sofidif, partecipata per il 60 per cento dal Cea e per il 40 dall'Agenzia iraniana per l'energia atomica, organismo posto sotto il controllo diretto dello scià. La Sofidif franco-iraniana ottiene quindi il 25 per cento delle azioni del consorzio Eurodif, mentre gli altri azionisti sono il Cea francese per il 27,8 per cento e, in posizione di minoranza, il Belgio, la Spagna e l'Italia (tramite l'Agip nucleare e il Cnen, poi Enea. L'Italia è ancora oggi azionista di Eurodif, con l'8,13% delle azioni in mano all'Enea). L'accordo per il prestito iraniano di un miliardo di dollari e per il contestuale accesso dell'Iran all'azionariato di Eurodif viene firmato dal primo ministro Jacques Chirac a Teheran, nel dicembre 1974. Come previsto dal momento della firma degli accordi, dal 1982, anno del raggiungimento della piena capacità di produzione, la centrale Eurodif arricchisce il 25% dell'uranio del mercato mondiale, per una quantità pari all'alimentazione annua di 90 centrali nucleari da 900 MW ciascuna. Grazie alla sua partecipazione azionaria, l'Iran poteva ottenere ogni anno il 10 per cento di questa enorme quantità di uranio arricchito. Le ambizioni atomiche dello scià non si limitavano però al solo nucleare civile: come disse lui stesso nel '76, «Saremo la quinta potenza militare del mondo fra cinque, sei anni forse (...) Oggi non siamo ancora nella posizione di possedere l'arma nucleare. Ma, siccome stiamo per costruire delle centrali atomiche, si potrà sempre dire che con l'uranio arricchito ne siamo capaci; ma allora perché prendersela con l'Iran, poiché sarà senz'altro il caso di tanti altri Paesi?», concetto ribadito alla Tv francese il 19 gennaio 1977: «Perché per la Francia dovrebbe essere normale (...) per l'Inghilterra dovrebbe essere normale avere armamenti atomici o all'idrogeno e per l'Iran - che non è nella Nato, che non è garantito da nessun Paese al mondo - il semplice principio di difendersi o di difendere i suoi interessi diventa un problema?».
(1. continua)
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