Quando l’Italia insegnava l’arte al resto del mondo

Quando l’Italia insegnava l’arte al resto del mondo

S barca al Mart di Rovereto Postmodernismo. Stile e sovversione, 1970-1990 (dal 25 febbraio al 3 giugno), la mostra che ha avuto ottimi riscontri al Victoria & Albert Museum di Londra fino ad alcune settimane fa. Impossibile non provare un sentimento di nostalgia, non tanto perché quell’epoca di giovinezza corrispondeva, per molti di noi, ai nostri vent’anni, ma soprattutto perché con uno sguardo retrospettivo solo oggi possiamo renderci conto di quanto l’Italia allora contasse.
Se nel presente si fa una gran fatica a trovare nelle esposizioni di arte e architettura qualcosa di più di un risicato numero di presenze creative del Bel Paese; se il nuovo millennio sembra averci spazzato dal centro della creatività mondiale, riducendoci a mera provincia dell’impero, dove non accade nulla; se la desolazione è il sentimento prevalente, allora, nel ventennio ’70-’90 (nonostante all’inizio il terrorismo e il post ’68 la facessero da padroni), era tutto un fiorire di Made in Italy, non tanto nelle arti maggiori (i pittori della Transavanguardia non sono contemplati in questo excursus storico) quanto in discipline considerate minori, come il design, l’architettura d’interni e la moda.
Tra l’apice della violenza (l’assassinio di Moro) e l’affermazione dell’Italia come quinta potenza mondiale, il delta temporale è strettissimo. E, se ci pensiamo bene, anche il processo di definitiva uscita dai temi del dopoguerra, la rottura del duopolio cattolicesimo-comunismo, non è poi così lungo: meno di trent’anni per arrivare a una società finalmente laica, disinvolta, disinibita che poteva permettersi di dialogare a pari con l’America, dare una pista all’Inghilterra, doppiare i tristi tedeschi e snobbare i francesi. È la via mediterranea all’Europa (anche in Spagna il rilancio è forte, si parla di movida, si va a ballare a Riccione e Ibiza, a Roma e Madrid).
Il postmoderno in Italia arriva prima del cruciale 1980 -l’anno del primo «Aperto» alla Biennale d’arte e della prima mostra d’architettura, sempre a Venezia- e la tesi interessante di questa esposizione, declinata per un pubblico internazionale dunque oltre alle facili celebrazioni localiste, è che già nel decennio precedente fossero stati seminati i presupposti per la rivoluzione a colori. Vero e proprio avamposto del gusto italiano, mix tra invenzione concettuale e abilità artigiana, specchio del colpo di genio unito alla furbizia levantina, è il design insieme all’architettura. La lista di nomi che ha fondato lo stile italiano diffondendolo nel mondo è impressionante: Alessandro Mendini, Ettore Sottsass, Aldo Rossi, Gaetano Pesce, Mario Bellini, Michele De Lucchi, Andrea Branzi, Nathalie Du Pasquier (francese ma di stanza a Milano), Cinzia Ruggeri e persino Gianni Pettena, l’«anarchitetto» fiorentino che fu tra i primi a scardinare i limiti della disciplina e pensare la materia come performance, azione, ironia.
Le invenzioni che ci sono state lasciate in eredità da questa straordinaria generazione di creativi ha cambiato per sempre il nostro rapporto con l’oggetto: non più soltanto uso e utilità ma piacere, status symbol, incarnazione dell’energia vitale del genio italico alla portata di tutti. Nelle nostre famiglie si è smesso di considerare il parmigiano un lusso e lo si grattugia con un macinino Alessi disegnato da Mendini, di cui gli americani vanno pazzi. La nuova identità italiana è quella di un Paese ricco di talento e di abilità: insieme al design, infatti, si impone la moda e Parigi davvero trema…
L’Italian Style è al primo posto in una mostra che mette sul piatto le icone trasversali e immortali del postmodern: Las Vegas, perfetta incarnazione della città-simulacro secondo i progetti di Robert Venturi e Denise Scott Brown; Grace Jones, bellezza androgina e nera, fotografata da Jean-Paul Goude e «ridipinta» da Keith Haring; Leigh Bowey, drag queen animatore delle dark room di Londra e modello prediletto di Lucien Freud.

E infine Blade Runner, il film più citato e amato di allora, in una piovosa Los Angeles del 2019 dove il replicante in simil pelle parla come il poeta Arthur Rimbaud: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi».

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