Quando Il Giornale pubblicò per primo le intercettazioni tra Piero Fassino e Giovanni Consorte, «Allora Gianni, siamo padroni di una banca?», era il gennaio del 2006 e ancor poco si sapeva della fitta ragnatela di sostegno tessuta con cura dai Ds affinché Unipol e le coop rosse acquisissero Bnl. Si sollevò uno tsunami di sdegno contro la pubblicazione, un coro di protesta non per lacclarata comunanza tra politica e finanza rossa quanto perché quelle conversazioni legittimamente eseguite non erano depositate. Piero Fassino si costituì parte offesa, venne strombazzato lo stereotipo delle trame occulte, di mani e manine come fumo negli occhi. La sinistra si sentì scippata di uno strumento che considerava come domestico, ovvero la fruibilità di atti giudiziari sulla controparte politica.
Qualcuno si spinse oltre. Il procuratore capo di Milano Manlio Minale bollò le telefonate come «irrilevanti», prive quindi di qualsiasi valenza penale per i politici che Consorte coinvolgeva nelle sue operazioni finanziarie. Oggi un giudice, con posizione quindi terza rispetto allaccusa e alla difesa, a procura e indagati, afferma lesatto contrario. E chiede al Parlamento la piena utilizzabilità affinché i politici con i quali Consorte parlava possano essere indagati. Anche a loro tutela. Per il giudice è evidente lintollerabile convergenza tra politica e finanza in unoperazione dove esponenti di primo piano come Massimo DAlema e Nicola Latorre hanno assunto un ruolo attivo, ben oltre il semplice sostegno amicale, il decantato tifo. Da un paio di conversazioni, il giudice desume persino che DAlema abbia avvisato Consorte che aveva il telefono sotto controllo. Tanto che lingegnere applica subito contromisure nelle telefonate successive.
Labisso tra quanto afferma Clementina Forleo e la posizione di Minale, espressa in una lettera spedita alla Camera a metà gennaio 2006 in pieno choc per un centrosinistra ostaggio di temute ripercussioni elettorali, non può passare inosservata. Perché se oggi è chiaro che il trauma che colpì lattuale maggioranza era motivato dal timore che emergessero tutte e anche queste ultime intercettazioni, con una devastante ipoteca sul voto, rimane incomprensibile il motivo che spinse Minale a liquidarle come «non rilevanti». Né il procuratore poteva non immaginare come il suo autorevole giudizio venisse strumentalmente utilizzato, come accaduto, da chi oggi rischia di finire indagato. Da un anno e mezzo leggiamo che queste intercettazioni sono semplici chiacchiere tra amici, che lOpa su Bnl era niente più che la colletta alle feste dellUnità per Emergency. E che diamine, è la stessa procura a liquidare quei colloqui come irrilevanti!
Per come conosciamo Minale, schivo, riservato e misurato procuratore, possiamo azzardare che avrà agito per buonsenso. Lo diciamo con coraggio. Di certo sarebbe maligno affermare che sostenne lirrilevanza per evitare putiferi alla vigilia delle elezioni. Minale si disinteressa di politica. Se però la Forleo ha ragione nel smentirlo, significa che il procuratore con quella posizione giustificò lassenza di indagini che mai erano state compiute sul fronte Consorte/politici. Tenendo in cassaforte quei colloqui. Fintanto che Il Giornale non sbrinò le imbarazzanti conversazioni. Non si capisce come i magistrati abbiano potuto escludere de plano qualsiasi reato a carico dei politici. Senza verificare se vi sia stato lutilizzo delle informazioni riservate o se la partecipazione di alcuni di loro fosse altro che ingenua passione.
Purtroppo non è lunica e clamorosa smentita che la pubblica accusa milanese incassa su indagini che chiamano in causa il centrosinistra. È di ieri la denuncia dellallora comandante generale della Guardia di Finanza Roberto Speciale, che racconta di aver subito minacce da Vincenzo Visco. Proprio per rimuovere chi fece le intercettazioni sui Ds, ovvero la gerarchia della GdF di Milano. Una storia quindi che si intreccia con quella appena descritta. Speciale nel luglio del 2006 mise infatti a verbale a Milano che il vice ministro lo sollecitò senza motivi a rimuovere nottetempo quei capi. Lui si oppose e Visco lo minacciò.
Il fascicolo giace in procura generale fino allo scorso giugno quando Il Giornale pubblica il verbale. Anche qui i magistrati giustificano linerzia affermando che non ci sono estremi di reato. Anzi, aggiungono che la pubblicazione nasconde interessi elettorali. A smentire però le improvvide considerazioni interviene la procura di Roma: gli elementi indicati da Speciale implicano la doverosa apertura di un procedimento. Si avvia uninchiesta dufficio, i Pm chiedono a Milano gli atti che finora mai erano stati trasmessi. Speciale conferma le accuse. Vengono sentiti molti altri ufficiali. Visco finisce nel registro degli indagati per abuso dufficio e minacce.
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