Quando ridere può essere una cosa seria

Lo studio dell’etnologo Gregory Bateson sul ruolo dell’umorismo nella comunicazione umana

Nicolas Chamfort ricordava che una giornata in cui non si è riso è una giornata persa. Leo Longanesi, al solito graffiante nei confronti dei vizi nazionali, scrisse che «Chi non ride, in Italia, fa ridere». L’elenco potrebbe continuare a ritroso tra scrittori e poeti, in precario equilibrio tra sberleffo e ironia. L’atto di ridere ha il sapore un po’ anarchico e liberatorio dei gesti in qualche modo fuori dagli schemi e tutto sommato inevitabili. Si ride per non piangere, per festeggiare, per trasmettersi un cenno d’intesa, per sdrammatizzare: si ride insomma perché non se ne può fare a meno. Così almeno ricorda Gregory Bateson (1904-80), biologo, etnologo, studioso dei meccanismi della schizofrenia autore di Verso un’ecologia della mente (1972), libro che lo ha collocato tra i protagonisti della riflessione moderna. L’umorismo nella comunicazione umana, ora pubblicato in Italia (Raffaello Cortina, pagg. 182, euro 13) è frutto di un dibattito tenuto da Bateson e suoi illustri colleghi nel 1952 alla «Macy Foundation» di New York: una originale conversazione sul significato del riso nei rapporti interpersonali. Il florilegio di osservazioni, in realtà, non dice molto di nuovo sul conto di un gesto spontaneo quanto il pianto, ma ha il merito di rammentare alcune verità. Per esempio, che l’atto di ridere è misterioso, in qualche modo «scatta» all’improvviso, scatenando una reazione nervosa nell’individuo: la sua forza sta nella capacità di propagarsi come una corrente sotterranea, contagiando gli interlocutori. A incuriosire l’autore è infatti la componente sociologica del riso: «Quello che mi interessa in uno studio del genere è utilizzare la comparsa del riso come indicatore, una sorta di cartina al tornasole \. Mi sembra che l’umorismo sia importante proprio perché fornisce alle persone un indizio indiretto del tipo di visione della vita che essi hanno o potrebbero avere in comune». Trovare divertente la stessa barzelletta o una gaffe involontaria, segnala somiglianze nella predisposizione di più individui nei confronti della realtà. Crea insomma un rapporto tra le persone, le mette provvisoriamente in contatto. Il riso crea un’affinità di ordine emotivo, spontanea, posta al di là di ogni valutazione razionale: esso sta alla «serietà» un po’ come la commedia sta a prodotti letterari più paludati. Ma non si dimentichi, spiega Bateson, che «se è vero che il teatro è, a un tempo, una semplificazione e una esagerazione della vita, la commedia potrà fornirci, sull’argomento, maggiori nozioni che non la vita reale». Forse per questo le pagine consegnano ai lettori un piccolo ammonimento: vietato fidarsi di chi non ha senso dell’umorismo perché «vede le cose solo in una cornice di riferimento molto ristretta, e perciò non è capace di cambiare».

Al contrario, saper sorridere del mondo e di sé stessi concede margini più ampi, è una forma di catarsi, crea una saggia distanza dalle proprie convinzioni e dai fatti della vita. È l’antidoto dell’intelligenza nei confronti di prospettive troppo rigide: per paradosso, ridere è insomma una cosa seria.

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