Quei compagni divorati dal drago sovietico

Due libri ricostruiscono le vicende degli italiani che nella prima metà del secolo scorso migrarono in Urss alla ricerca del paradiso e trovarono l’inferno dei gulag

Sognavano la rivoluzione, ma nel Paese di Lenin e Stalin trovarono umiliazioni, prigionia e, il più delle volte, morte. Una generazione di antifascisti slittò sull’asfalto dell’ideologia, finì tra le fauci del drago sovietico e ne fu divorata. Centinaia di nomi e di storie dal copione ossessivamente uguale: la fuga dall’Italia, l’arrivo a Mosca col cuore gonfio di orgoglio e di belle speranze, la disillusione, il gulag, spesso in situazioni ambientali disumane, la fine fra atroci tormenti. Socialisti, comunisti, anarchici e, più in generale, chi ebbe la sventura di trovarsi in Urss, soprattutto nel periodo del Grande terrore, fra il 1937 e il 1938. Fu una strage, silenziosa e a lungo rimossa. Assai peggio di quanto accadde nelle galere fasciste.
Quando si racconta la storia del Ventennio mussoliniano occorre tener presente anche questo capitolo per collocare l’Italia nel contesto internazionale. I numeri sono impressionanti: fra il 1919 e il 1951 in Urss furono fucilati 110 italiani, 140 furono condannati al lavoro forzato, una cinquantina spediti al confino. In totale oltre mille connazionali subirono una qualche forma di repressione.
Le loro storie, riaffiorate negli ultimi tempi, sono raccontate in due volumi usciti nei mesi scorsi: Italiani nei lager di Stalin, di Elena Dundovich e Francesca Gori (Laterza, pagg. XVII-209, euro 16) e Carnefici e vittime. I crimini del Pci in Unione Sovietica, di Giancarlo Lehner con Francesco Bigazzi (Mondadori, pagg. 436, euro 20). Due libri che seguono lo stesso filo e sembrano scambiarsi i protagonisti e le riflessioni. Solo con un taglio diverso, più sobrio e accademico quello delle studiose, più passionale, quasi torrenziale l’altro.
Molti, moltissimi di quei disgraziati furono traditi da altri italiani, quei comunisti che erano di casa a Mosca alla corte dei tiranni: i Roasio, i Robotti, lo stesso Togliatti. Otello Gaggi, per esempio, arriva in Russia molto presto: nel 1922, perché un tribunale italiano gli ha dato trent’anni per l’omicidio di un avversario politico. Solo che non rinnega le proprie idee e non si piega all’ideologia ufficiale. Era anarchico e per nulla al mondo disposto a venir meno al proprio credo. Gliela faranno pagare in tutti i modi: nel 1922 viene arrestato, a Baku, e condannato a 3 anni; «nel 1935, a Mosca, dopo la schedatura negativa dei vari Togliatti, Ciufoli, Roasio, Robotti, Barontini, Aldo Morandi, ecc.», scrivono Lehner e Bigazzi, «si ritrova condannato a tre anni di confino nel gelo della regione di Arcangelo, a Jarensk».
Non è finita: il 29 luglio 1937 viene arrestato di nuovo e gli vengono caricati sulle spalle altri cinque anni di detenzione. Muore in carcere nel 1945 per una colpa che non esiste; nell’interrogatorio del 9 gennaio 1935 gli hanno chiesto: «Lei è stato fino all’ultimo membro dell’organizzazione controrivoluzionaria trotzkista di Siciliano e altri. Che cosa può dire in proposito?». Che cosa poteva dire il disgraziato? Nulla. Gaggi, classe 1896, toscano di San Giovanni Valdarno, non cede e muore da eroe. Anche se il suo eroismo non trova spazio nei nostri libri di storia e nemmeno nei sussidiari dei nostri ragazzi.
Altri, invece, capitolano, ma la confessione non servirà a salvarli. E così le loro biografie conservano un capitolo finale che si vorrebbe strappare, tanto è umiliante. È il caso di Renato Cerquetti, classe 1898, di San Severino Marche. Sulla carta, il suo è il curriculum del perfetto militante comunista: si iscrive al partito nel ’21, giunge in Urss nei primi mesi del ’24 e dal ’25 è membro del partito comunista bolscevico. Nel ’36 prende addirittura la cittadinanza sovietica. E ha un lavoro altamente qualificato: ingegnere-geodeta nell’Ente per la fotografia aerea. Ma tutto ciò che ha costruito viene spazzato via in un attimo: il 23 ottobre ’37 viene arrestato, il 9 febbraio ’38 condannato alla pena capitale. Il giorno dopo viene fucilato a Butovo.
Il suo crimine? L’aver ammesso di essere stato bordighista nel ’22-23, il periodo in cui Amadeo Bordiga era il segretario del partito, e poi di essersi venduto come agente alla polizia fascista. Il particolare ovviamente è falso. Ma lui parla e collega con fili fantastici suggestioni diverse: «Essendo io bordighista, quindi mal disposto verso il Comintern, diedi il mio consenso a lavorare nell’ufficio politico della Pubblica sicurezza». E ancora: «Molti bordighisti si sistemarono nei servizi segreti del controspionaggio italiano, da dove ricevevano incarichi e direttive per le loro attività (...). Tale svolta tattica dei bordighisti divenne possibile dal ’33, cioè dopo il riavvicinamento del fascismo italiano a quello germanico, uniti dalla comune lotta contro l’Urss». Deliri.


Che non fermano il boia. Occorrerà pazientare fino agli anni Cinquanta, e in certi casi fino agli anni Novanta, per vedere riabilitati i caduti del terrore. Ma la congiura del silenzio è andata avanti fino ai nostri giorni.

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