Attenti a questo Sergio Marchionne, perché forse ha paura dei cinesi o forse anche di più dei coreani o dei tedeschi (competitori sul mercato), ma non ha paura degli italiani. Non c’è modo di farlo preoccupare con minacce o di impressionarlo con analisi sociologicamente profonde, e quindi non c’è spazio per chi si offra come mediatore o come grande professore che ti spiega tutto. Più che la fine della concertazione, fatto vero ma che rischia di diventare un ritornello, la vera cifra della gestione Marchionne è la fine della paura. Il vecchio giochino di rompere il vetro e poi offrirsi per ripararlo non funziona più. Se il vetro si rompesse Marchionne cambierebbe finestra o forse cambierebbe proprio palazzo. Non sta ai piccoli ricatti della stratificata, terribile, palude italiana. Dove c’è chi fa il cattivo, c’è chi agita la piazza, e poi c’è chi analizza, spiega, chiede spazio per mettere le cose a posto e far sbollire gli spiriti, e ti viene a vendere una soluzione che, però, ha il difetto di piazzare al centro della scena proprio il mediatore. Questo la Fiat non lo vuole più. E a quanto sembra di capire non aprirà fondazioni, non finanzierà studi, non foraggerà ricerche sociologiche, non offrirà collaborazioni alla Stampa, non darà incarichi da presidente in America, per tenersi buona l’Italia che lo critica o che evoca strani spettri. Così se ne va il metodo Agnelli: niente più giri in elicottero a vedere Mirafiori dall’alto, niente più telefonate all’alba per ragionare assieme. Ognuno sta al proprio ruolo.
Non ha più paura, Marchionne, di andare da solo e di non chiedere altri aiutini e aiutoni pubblici. E anche con questa scelta vengono giù schiere di mediatori professionisti, di persone e organizzazioni che si offrono di aggiustare le situazioni. È una mutazione drammatica e infatti sta generando prima incredulità, poi irrisione e infine panico.
Non ha paura di guadagnare, personalmente, tanto, tantissimo. Non deve chiedere scusa, né fingere. Niente da nascondere o da ammantare di solidarismo peloso. Forse c’è qualche guasconaggine in tutto ciò, qualche tratto psicologico peculiare, ma è così e bisogna prenderne atto.
Non ha paura delle battutine (magari si innervosisce per i falsi test, ma querela e non si spaventa) sulla qualità del prodotto e sull’esiguità della gamma. Semplicemente, a quanto si capisce, sta provando a giocarsi la carta della competizione sul mercato e non altrove. Con tutte le difficoltà di questa scelta. Fare impresa significa anche prendere rischi e la domanda di un prodotto come l’automobile è molto più complessa di quanto emerga dalle nostre battutine. Sa benissimo che bisogna innovare l’offerta Fiat e che questo è un passaggio vitale. Ma sa che l’innovazione si fa in fabbrica e si fa solo se la fabbrica funziona. O ci sono altri modi? I nuovi modelli si concepiscono e si realizzano al bar?
Non ha paura delle voci sulle cessioni di pezzi dell’azienda o di marchi e sull’eterna voce che lo vorrebbe come traghettatore verso una Fiat tutta americana. Ne ha talmente poco paura da essere lui stesso a evocare un futuro fuori dall’Italia per l’azienda. Voi lo dite? Ma sono io che vi spavento davvero immaginando pubblicamente di farlo questo trasloco. E poi, però, che fate?
Non ha paura dei lettori dei bilanci e neanche delle banche.
Giuseppe De Filippi
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