Quel Massimo D'Alema "nazi" che non t'aspetti: "Disegnai una svastica su un carrarmato Urss"

Si rinfresca la memoria del mitico Max, riaffiora d’incanto la sua vena più umana, più simpatica, persino emotiva e passionale. E racconta del suo 1968: "Con un amico, a bordo di una sgangheratissima 500, partimmo per Praga. Fu il giorno in cui vi entravano i carri armati sovietici"

Quel Massimo D'Alema "nazi" che non t'aspetti:  
"Disegnai una svastica su un carrarmato Urss"

Roma - Dev’essere l’aria nuova, il vento del cambiamento, la speranza di vincere le elezioni (magari grazie a qualche apporto extra-Pd). Si rinfresca la memoria del mitico Max (D’Alema), riaffiora d’incanto la sua vena più umana, più simpatica, persino emotiva e passionale. Al punto da concedersi a un giornalista (vabè che si tratta di Luca Sofri, un amico) per una lunga chiacchierata che si traduce in cinque lunghe pagine sul sito Post.it, di cui Sofri è direttore.
A parlare non è il sarcastico, gelido D’Alema nemico giurato delle «jene dattilografe» fin dai tempi della sua direzione all’Unità. Forse anche per colpa dell’età che, ipse dixit, induce le persone «a intenerirsi». Ed eccolo, il tenero Max, rievocare il suo Sessantotto: «Quando io ero ragazzo, dopo un indimenticabile anno accademico di occupazioni, battaglie, eccetera, arrivato stremato alla fine di tutto questo, non pago di tutto quello che era successo – era il 1968 – con un amico, a bordo di una sgangheratissima 500, partimmo per Praga. Perché pensavo che questa breve vacanza si dovesse fare nella primavera praghese, perché mi appassionava, perché non concepivo nulla al di fuori dell’impegno. E mi ritrovai a Praga il giorno in cui vi entravano i carri armati sovietici. E ricordo lo choc».
Uno choc pari al nostro, apprendendo lo «strappo» che il giovane figlio d’arte del Pci stava per consumare. «Mi ricorderò tutta la vita come in questa mattinata in cui scendemmo in piazza per protestare contro i carri armati sovietici feci una cosa che mentre la facevo capivo che non andava fatta, anche perché era rischiosa, ma all’epoca non avevamo il senso di quel rischio: e disegnai con un gessetto una svastica su un carro armato del patto di Varsavia».
Una svastica sul sacro simbolo della Grande Patria Sovietica. Incredibile. Ma il peggio doveva ancora venire. «Dopo, mi ricordo che c’era lì un compagno che avevo incontrato pochi anni prima: era molto giovane ed era sindaco di un paesino emiliano, anche lui lì in vacanza. Stava guidando e a un certo punto la radio clandestina disse che bisognava suonare le campane, i clacson. E allora lui si mise a suonare il clacson della sua macchina e diceva: “Chi l’avrebbe mai detto che siamo qui e protestiamo contro l’Armata Rossa” e ci mettemmo a piangere. E io credo di aver pianto (per il dolore che mi aveva dato l’Armata Rossa, pensa tu) per due giorni. È stato uno dei più grandi dolori della mia vita, perché mentre capivo che bisognava essere contro...

però il fatto che lì ci fosse l’Armata Rossa, per quanto io fossi uno del Sessantotto, un comunista italiano, fu un tale choc che mi produsse un dolore enorme (mi risollevai, diciamo, dopo aver visto il comunicato del Pci)». Più di ogni cosa, diciamo, davvero impagabile la chiusa. Nella quale rifà capolino, ahinoi, il D’Alema che si fa amare. Inclemente, per una volta, persino con se stesso.

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