Quelle barricate a Porta Venezia

Qualche volta la Storia è alla mercé di un fragile sospetto o di una voce che si dilata di bocca in bocca fino a diventare granitica certezza. Nel maggio 1898, giusto mezzo secolo dalle risorgimentali Cinque giornate, Milano era teatro di una serie di manifestazioni popolari di protesta. Ragioni del malcontento ce n'erano parecchie, politiche e sociali, ma tra tutte svettava il rincaro del pane. In un anno il prezzo era aumentato del 25 per cento e un chilo costava quasi 50 centesimi, a fronte di un salario medio giornaliero che sfiorava le due lire.
Lunedì 9 maggio, quarta giornata di disordini, la città, considerata (da qualcuno beffardamente) la capitale morale, era in stato d'assedio. Voluto dal generale Bava Beccaris che nel pomeriggio del 7 era stato nominato «regio commissario straordinario con pieni poteri». Vie e piazze erano dunque presidiati dai soldati e dai loro cannoni. Una parte dei militari era appostata sulle mura dei bastioni, in modo da poter sparare agevolmente su chiunque si muovesse, avesse o meno l'aria del rivoltoso (alla fine si conteranno un'ottantina di morti e centinaia di feriti).
Verso mezzogiorno, nel convento dei cappuccini, all'angolo tra corso Concordia e viale Porta Manforte (oggi viale Piave), i frati stavano distribuendo la minestra ai poveri del quartiere. Un rito quotidiano, in un cortile circondato da un muro alto poco più di due metri. Fuori ci sono i soldati. Dentro la solita ressa di poveri diavoli, uomini, donne e bambini, ansiosi solo di riempire scodella e stomaco. Ma quel vociare insospettisce un ufficiale. Ferma un carretto a mano condotto da un garzone, lo accosta al muro, sale e guarda. Poi scende e grida: Tradimento! Tradimento!
Aveva scambiato quella povera folla di derelitti per rivoluzionari. Un tragico abbaglio. Che si salda subito ad una voce che girava in quei giorni in città: sotto il convento c'è un tunnel segreto che arriva fino in Duomo e che aiuta gli insorti. Tanto basta ai militari, convinti anche che dal cortile partano colpi di fucile verso di loro.
Non bussano alla porta, ma si fanno aprire dal cannone, che sbriciola un pezzo di muro. Poi l'irruzione e l'arresto di tutti i «ribelli» - frati e poveracci - tutti morti di paura, qualcuno morto sul serio.
«Una grottesca cantonata - scriverà Benedetto Croce - che provava come le autorità avessero perso la testa». Un abbaglio strategico da passare alla storia. Ed è ciò che fa Paolo Valera, noto sovversivo (finirà anche lui in galera) con l'aggravante d'essere un brillante giornalista. Ripercorre i luoghi degli scontri, interroga i testimoni, ricostruisce l'irruzione dei soldati baionetta inastata e la loro violenta quanto inutile ricerca dei rivoltosi, racconta il terrore degli arrestati, la pietà per i morti innocenti. Pochi mesi dopo esce L'assalto al convento. Narrazione documentata, stampato a due passi dalla breccia galeotta, in via Manforte 17. Dopo oltre un secolo, la cronaca di quei tragici giorni torna in libreria nella collana «Il sonno della ragione», curata da Giovanni Biancardi, de «Il muro di Tessa» (distribuzione Pecorini, pagg. 208, euro 35). Un'attesa ristampa legata però non solo al rovente contesto storico. «Il libro merita la riproposta anche per le qualità letterarie del Valera - scrive Andrea Kerbaker nell'introduzione - a cominciare dalle descrizioni, dove poche righe bastano a restituire il senso di un volto, un atteggiamento, un clima».
Ma lo merita anche per lo stile giornalistico. Con il lapis del cronista che corre rapido e implacabile sul taccuino, il ritmo incalzante delle frasi brevi che «filmano» gli avvenimenti, la processione di aggettivi per scolpire i profili umani dei miseri protagonisti. Come i bambini nel convento: «Piccini, stracchi, stremati, spolpati, anemici, biancastri, che fanno andar via la voglia di vederli.

Sporchi, puzzolenti, con la mucidaglia assecchita sotto i nasucci pavonazzi, gli occhi incatramati di secrezioni e le manine vischiose"» E lo merita perché in fondo, conclude Valera, «la matita nelle giornate di sommossa è forte, più forte dei cannoni a tiro rapido».

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